#14 Ci vuole un villaggio I È finita la scuola, e ora?
Inizia oggi il tetris dell'organizzazione estiva. Un progetto di Save The Children racconta perché la chiusura prolungata delle scuole è, prima di tutto, un problema di divario educativo
Ciao!
Rieccoci qui. Come stai? Questa newsletter ha saltato un paio di giri ed è passato un mesetto dall’ultimo numero. Ma è stato per due buoni motivi, anche un po’ personali, che ci tengo a raccontarti entrambi. Prima, però, spazio all’argomento principale, che questo slittamento di uscite non poteva far coincidere con una giornata migliore. E che parte dalla più gettonata delle domande di queste ore tra i genitori: “Quindi… come siete organizzati?”. Ovvero, da oggi che la scuola è ufficialmente finita, come gira l’organizzazione dei prossimi tre mesi tra: campi estivi-oratori feriali-ferie-nonni (chi ce li ha)-improvvisazione-varie ed eventuali?
Di tetris, privilegio, estate e un arcipelago educativo
Una questione di tetris... Quello del tetris estivo è uno dei grossi problemi del sistema sociale e organizzativo della vita delle famiglie con bambini. La scuola chiusa per tre mesi - la pausa più lunga d’Europa - risponde a un modello che stava in piedi diversi decenni fa, quando la maggior parte della madri non lavorava e si occupava dei bambini a tempo pieno per tutta l’estate. Anzi, prima ancora: quando i bambini non andavano a scuola in estate perché serviva anche la loro manodopera per raccogliere il grano. Non è una boutade o un modo di dire: è proprio così. Il calendario scolastico di oggi segue il calendario del grano di un tempo - in un’epoca nella quale la maggior parte dei bambini non hai mai visto una spiga di grano dal vivo. Basta questo per capire che vada in qualche modo ripensato.
Su questo tema - sul perché ha senso modificare il calendario scolastico strutturandolo in maniera diversa, con più pause durante l’anno, una chiusura delle scuole più breve d’estate e la possibilità di usare gli istituti scolastici in questi mesi per svolgere altre attività - rimando all’importante campagna “Un’estate piena rasa: la petizione per cambiare il calendario scolastico” lanciata già lo scorso anno da We World Onlus con Mammadimerda: la trovi qui, risponde a molti dubbi sul tema e l’invito da parte mia è a firmare la petizione che contiene.
… ma più di privilegio. C’è però un aspetto della questione che mi colpisce in modo particolare e del quale vorrei parlare qui. Ha a che fare con una parola: privilegio. Quando ad aprile, nel mese caldo della corsa collettiva delle famiglie per accaparrarsi un posto nei vari campi estivi, è stata rilanciata la petizione di We World Onlus, mi hanno molto colpito i commenti di chi sui social difendeva l’attuale sistema, soprattutto uno, che ne riassumeva bene molti: “I bambini d’estate devono poter stare tre mesi al mare”. Ma davvero viviamo in un Paese nel quale la maggior parte dei bambini d’estate se ne sta in villeggiatura per un periodo così lungo? Ovviamente no.
Anche se quel commento era chiaramente esagerato, evidenziava però un punto: le vacanze e la chiusura prolungata delle scuole - a fronte del vuoto pubblico di altre iniziative - prima ancora che un problema organizzativo dei genitori, sono una questione che ha a che fare con il divario sociale ed educativo e, appunto, con il privilegio. Non solo quello dei pochissimi in grado di offrire ai propri figli tre mesi di vacanza al mare, ma anche quello dei moltissimi (tra i quali anche la sottoscritta) che, seppur tra sacrifici e incastri, riescono in qualche modo a riempire buona parte della lunghe giornate estive di bambini e ragazzi con giochi, attività, compiti. Con corsi di teatro, coding, sport e bagni al mare coi nonni nel caso dei più fortunati, con anche solo la possibilità di stare all’aria aperta, in compagnia dei coetanei, per la maggior parte. Con la garanzia di poter tornare a scuola a settembre senza rimanere indietro, non per il fatto di aver studiato, ma semplicemente per aver avuto l’opportunità di fare esperienze nuove e diverse e vivere per tre mesi una vita sociale piena.
Ma per tutti gli altri?
Se spostiamo lo sguardo dai nostri salti mortali organizzativi di genitori ai bambini, infatti, capiamo bene che il punto è soprattutto il vuoto che, in moltissime realtà, si crea lì dove la scuola è uno dei pochi presidi sociali esistenti. Se la chiudi per tre mesi, bambini e ragazzi che fanno? Cosa perdono?
Un progetto di Save The Children. È quello che ha provato a misurare Save The Children attraverso il progetto educativo Arcipelago Educativo, nato nel 2020 per contrastare il summer learning loss - espressione che non conoscevo e che mi sono fatta spiegare da Carlotta Bellomi, Responsabile Scuola di Save The Children. Ecco, allora, cosa mi ha raccontato.
Cos’è Arcipelago Educativo?
È un progetto che nasce nell’estate del 2020 quando, dopo il primo lockdown, Save The Children e Fondazione Agnelli si sono alleate per riaprire le scuole prima del tempo. Inizialmente, sono stati coinvolti una decina di istituti su tutto il territorio nazionale per offrire a bambini e ragazzi della fascia 9-14 anni un percorso che potesse lavorare su tre aspetti: il recupero degli apprendimenti fortemente indeboliti dai mesi di chiusura, il benessere psicofisico e la socializzazione. Dopo i primi due anni nei quali le attività sono state influenzate dalla pandemia, quest’anno siamo alla quarta edizione.
Come funziona?
Arcipelago Educativo è un progetto che prevede una fortissima alleanza tra scuola, terzo settore e famiglie. Per ogni ragazzo propone un intervento intensivo di 100 ore: circa 5 settimane, con un impegno part-time, a ridosso della chiusura della scuola e poi della riapertura a settembre. L’obiettivo è sostenere bambini e ragazzi, soprattutto quelli che sono più a rischio di dispersione scolastica, con tre tipi di attività. Ci sono i laboratori didattici in piccoli gruppi nei quali, attraverso modalità creative e ludico-artistiche, si lavora sul recupero delle competenze. Poi ci sono i tutoraggi personalizzati in cui gruppi di due o tre bambini vengono seguiti da un tutor didattico per recuperare le lacune scolastiche segnalate agli insegnanti. Infine, ci sono le uscite sul territorio, partendo dalla convinzione che rappresenti un contesto privilegiato per l'apprendimento.
Dicevi che è un progetto che si basa sulla collaborazione tra scuole, famiglie e terzo settore. In che modo?
Per le famiglie, per esempio, è previsto un servizio di messaggistica multilingue, con anche la possibilità di traduzione simultanea. Questo ci permette di comunicare bene anche con le famiglie straniere e di mandare loro periodicamente una serie di spunti di attività che possono riprendere a casa. L’idea è che ci sia un continuum educativo tra quello che si svolge a scuola d'estate e quello che può essere proposto dalle famiglie per sostenere gli apprendimenti, in forma ludica e creativa. Ogni bambino, poi, compone un proprio taccuino digitale: uno strumento in cui il percorso di crescita di ciascuno viene reso attraverso una narrazione polifonica: c'è il punto di vista del docente, che all’inizio delle vacanze evidenza gli obiettivi didattici, quello degli educatori, che raccontano le esperienze fatte durante l'estate, e quello del bambino o del ragazzo, che rimanda l’esperienza attraverso il proprio punto di vista e le proprie riflessioni. A settembre il taccuino viene consegnato sia ai bambini che alle famiglie e ai docenti. È un modo per valorizzare il fatto che l'estate sia stata un momento educativo qualitativamente alto. L'idea è offrire a bambini e ragazzi che non partono, che non fanno vacanze e spesso rimangono chiusi in casa durante tutta l'estate una nuova modalità per riscoprire la scuola, anche con attività divertenti e passando l’idea che si può imparare divertendosi.
Lo presentate come progetto di contrasto al “summer learning loss”. Un’espressione che personalmente non conoscevo. Cosa significa?
È un tema che, in realtà, in Italia conoscono in pochi, nonostante in altri Paesi se ne parli da decenni. È il fenomeno per cui, durante le pause scolastiche lunghe, soprattutto bambini e ragazzi che provengono da contesti svantaggiati, perdono progressivamente quello che hanno imparato durante l’anno scolastico: è come se poi, a settembre, partissero 200 metri più indietro rispetto a chi durante l'estate è stato seguito nei compiti e ha potuto fare vacanze ed esperienze interessanti. Purtroppo, non ci sono misurazioni rispetto a questo fenomeno. Arcipelago Educativo è stato il primo progetto in Italia a lavorare sul tema e nel 2022 è stato sottoposto a una valutazione di impatto.
E cosa è venuto fuori?
È emerso che un intervento come quello proposto influisce in maniera positiva sugli apprendimenti, infatti, chi ha partecipato al progetto ha avuto un miglioramento sia in italiano che in matematica rispetto a ragazzi che non hanno partecipato e che sono arretrati in entrambe le materie. Ma la valutazione è stata fatta anche sulle competenze non cognitive ed è emerso un miglioramento rispetto a quelle socio-emotive: sono aumentati la curiosità e l'interesse per l’apprendimento, e anche un po’ di preoccupazione: quando un bambino o ragazzo diventa più consapevole si preoccupa anche maggiormente rispetto al ritorno a scuola a settembre con metodologie più tradizionali, diverse da quelle usate in estate.
Quante sono le scuole coinvolte nel progetto quest’anno?
Ci sono otto scuole che partecipano con un'implementazione diretta di Save the Children e poi abbiamo aperto una call a tutte le scuole d'Italia, che possono partecipare adottando la nostra metodologia, con la nostra formazione e supervisione. In totale, 24 realtà (istituti scolastici o enti del terzo settore) afferenti a 11 Regioni adotteranno quest’estate la metodologia di contrasto al summer learning loss di Arcipelago Educativo.
Come accennavi, un altro punto fondamentale del progetto è l’attenzione all’outdoor education.
Il senso è aprire la scuola: far sì che questi presidi rimangano attivi anche durante l'estate, utilizzando tra l'altro spazi che solitamente non vengono sfruttati al massimo, come le palestre, i giardini, i corridoi. E poi ci sono le gite sul territorio: non serve andare lontano, si può rimanere anche nel perimetro cittadino, ma permettere ai ragazzi di avvicinarsi alle bellezze del proprio territorio. Molto spesso chi frequenta i nostri servizi non esce mai dal quartiere nel quale vive. Per anni, abbiamo lavorato con Arcipelago Educativo nel quartiere di Quarto Oggiaro, a Milano, con bambini e ragazzi che non avevano mai visto il Duomo. Anche solo una semplice gita coi mezzi pubblici per andare in centro è stata per loro un'occasione di apprendimento e di crescita importante.
Un modello al quale ispirarsi su scala nazionale?
È un modello sul quale noi stiamo puntando molto anche perché questo è un momento storico in cui le scuole, con l’autonomia, hanno la possibilità di sperimentare. Certo, poi ci si scontra con difficoltà anche culturali, perché nel nostro Paese la scuola è sempre stata chiusa durante l’estate. Eppure, quegli spazi potrebbero diventare una risorsa importante per bambini e ragazzi, soprattutto in quei territori in cui non c'è nient'altro oltre la scuola, dove non ci sono offerte di centri educativi o di altre realtà che organizzano attività per loro.
Attività che comunque, dove sono presenti, sono a pagamento e pongono, quindi, un problema di accesso.
Esattamente. Tutte le attività di Arcipelago Educativo sono totalmente gratuite per la famiglie e permettono quindi la partecipazione anche di quelle che, altrimenti, difficilmente potrebbero permettersi altro.
È proprio un modo diverso di guardare alla scuola, a partire dagli spazi fisici.
Assolutamente. Lo si vede proprio negli occhi dei bambini, che ritornano a scuola a settembre scoprendo un altro modo di poterla vivere, un modo diverso di socializzare, di imparare, anche di riflettere sul proprio percorso scolastico. Oltre che sulle competenze alfabetico-funzionali, lavoriamo anche su quelle cosiddette metacognitive, che insegnano cioè ai bambini “a imparare a imparare”. Significa creare degli spazi in cui il bambino possa sentirsi davvero protagonista del proprio percorso di apprendimento, riflettere su quali siano gli argomenti che gli piacciono di più, ma anche sulle strategie migliori per lui per imparare.
Cose che sarebbe bello entrassero in tutte le scuole, tutti i giorni.
Sì. Da questo punto di vista, un altro aspetto importante che con Arcipelago Educativo testiamo da qualche anno è la co-progettazione e co-realizzazione con professionisti con competenze diverse: il valore aggiunto di lavorare educatori e docenti insieme, di mettere a sistema professionalità diverse che si interrogano e lavorano congiuntamente a un piano di recupero personalizzato è molto alto. E la differenza si vede.
Una riflessione. Non c’è molto da aggiungere se non ricordare che lo scorso aprile il Ministero dell’Istruzione ha presentato il Piano Estate biennale che ha come obiettivo permettere alle scuole di rimanere aperte in estate proponendo attività gratuite di inclusione, socialità e potenziamento delle competenze, anche grazie alla collaborazione col terzo settore. È partito troppo tardi perché le scuole potessero organizzarsi e usufruire dei fondi già quest’anno e con uno stanziamento relativamente contenuto (400 milioni di euro per questa e la prossima estate), ma è comunque il segnale che qualcosa sta cambiando. C’è da sperare che progressivamente siano sempre di più gli istituti scolastici che, grazie a questi fondi, decidano e riescano ad attivare progetti estivi, anche promossi dal terzo settore come quello di Save The Children. È chiaro che la scuola da sola non può fare tutto e, ancora una volta, la soluzione si può trovare nell’alleanza tra soggetti diversi che, come racconta Carlotta Bellomi, possono poi essere portatori di approcci nuovi e positivi per la scuola in generale. Quello che è certo è che non si può continuare a far finta di non vedere un problema enorme, che aumenta il divario educativo e mette in grande difficoltà le famiglie.
A questo proposito, se ti va di raccontarmi la tua esperienza, se la tua scuola quest’estate rimarrà aperta o conosci sul tuo territorio esempi di bei progetti e iniziative, scrivimi: parliamone, confrontiamoci, diffondiamo buone pratiche, facciamo massa critica, come si dice. E non smettiamo di chiedere che le cose cambino.
Perché è un po’ che non ci sentiamo
Come promesso all’inizio di questa newsletter, chiudo con una nota personale. Ovvero, i motivi per i quali per qualche settimana non ci siamo sentiti.
Il prima è che, come avevo anticipato, a fine maggio “Ci vuole un villaggio” ha fatto un giretto fuori da questi schermi: sabato 25 maggio ci siamo incontrati nei begli spazi della biblioteca Tilane di Paderno Dugnano, alle porte di Milano, e abbiamo passato un paio d’ore a parlare occhi negli occhi di cosa significhi oggi “fare villaggio”. Con me c’erano la psicologa Giovanna Gorla, Lia Calloni, fondatrice del progetto Gaia Family Hub, e una trentina di genitori - con bimbi al seguito. Abbiamo ragionato intorno a delle parole, quelle che da una parte esprimono le fatiche della genitorialità di oggi e quelle che, dall’altra, rappresentano il sostegno che possiamo trovare, soprattutto nella rete sociale e nella comunità.
Fatica, solitudine, bisogno di essere visti nei propri bisogni, lavoro, tempo, ma anche condivisione, welfare, nidi, servizi, rallentare, coppia, delegare, congedi parentali: sono anche le parole intorno alle quali, in questi mesi, è andato costruendosi il ragionamento che questa newsletter porta avanti e poterne parlare di persona, insieme, è stato molto bello.
Lo è stato particolarmente per me averlo fatto nel territorio nel quale vivo: quando si abita alle porte di una grande città - e quando quella città è Milano - si ha a volte la sensazione di essere risucchiati e, insieme, respinti dalla forza che la città esercita. Come se le cose potessero accadere lì e basta o che è lì che trovino la forza per acquisire senso e valore. E, invece, è soprattutto nelle micro-comunità che il confronto e la condivisione hanno più possibilità di uscire dalla retorica del già detto e sentito e incontrare le storie, i bisogni, i desideri concreti delle persone. Di essere utili, insomma.
Faremo in modo che questa cosa succeda presto di nuovo, qui. Intanto, se del villaggio, con tutte le sue implicazioni, ti piacerebbe parlare in un evento dal vivo anche altrove, sentiamoci e vediamo se e come possiamo farlo insieme.
Il secondo motivo per il quale la newsletter è saltata per un po’ è che sono state settimane faticose. Impegni lavorativi, salute altalenante, decisioni importanti da prendere, il carico da fine anno che inizia a farsi sentire. Ho pensato a tutte le volte che, anche in questo spazio, ho scritto della stanchezza dei genitori (e non solo), dell’importanza del rallentare, del riprendersi spazi e tempi. Scrivere a tutti costi qui mentre stavo una chiavica non avrebbe avuto senso. E, allora, ho scalato le marce. E ora va meglio. Cose che mi hanno aiutato?
recuperare sonno andando a letto prima la sera;
fare cose che non facevo da un po’ e che mi mancavano: andare a prendere mia figlia a scuola e passare il pomeriggio al parchetto con lei, coccolare la mia nipotina, pranzare o cenare con persone con le quali avevo in sospeso pranzi e cene da mesi, camminare nella natura con le amiche la domenica dopo una lenta colazione;
spegnere tutto o quasi: mi sono accorta che per provare a scaricare la tensione, scrollavo social e notizie, ma più scrollavo, più la confusione nella mia testa aumentava. Allora, di sera, ho deciso di svuotarla in altro modo, vedendo una serie (cosa che non facevo da tempo), la prima che mi hanno consigliato: “Call my agent”. Ho passato un po’ di serate non pensando a niente che non fosse la storia che stavo seguendo, facendomi un po’ di risate grazie a una cosa carina, ben scritta, divertente e, soprattutto, che avesse un inizio e una fine e non fosse un vortice senza fondo. Nota: nella serie non c’è neanche un bambino e, quindi, un genitore;
scoprire un nuovo amore: la “trilogia di Marsiglia” di Jean-Claude Izzo. Non leggo molti noir, ma per l’ex poliziotto Fabio Montale e la sua città ho perso la testa e inaugurato una nuova abitudine: pranzare sul balcone (tempo permettendo!), leggendo e senza tg. Sono oltre la metà del secondo libro e mi chiedo già come farò quando alla fine del terzo mi toccherà salutare Montale;
a proposito del tg: non sono giornate, tempi facili nei quali confrontarsi con le cose che accadono. Anzi, tutt’altro. Personalmente, ho avuto bisogno di staccarmi per un po’ dal flusso costante delle notizie - che per una che fa la giornalista di lavoro può sembrare un paradosso. Ma non credo lo sia: tutti abbiamo una “capienza”: imparare a riconoscere quando la nostra misura inizia a essere colma e prendersene cura penso sia la prima cosa da fare per tornare poi a occuparsi anche delle cose del mondo.
Ed eccoci alla fine di questo numero. Devo ammetterlo, questo spazio mi era mancato 🧡 Spero sia mancato un pochino anche a te e che tu abbia ripreso a leggere con piacere. Se è così, ricordati che puoi inoltrare la newsletter a chi vuoi da qui:
Noi ci leggiamo tra due settimane promesso! 🧡
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.
Era mancato anche a me