#2 Ci vuole un villaggio: Tempo, tempo, tempo...
Una riflessione sul tempo (e i tovaglioli di stoffa) e su dove possiamo trovare quello che ci manca. E poi due grazie: uno a te e l'altro a Delia, la protagonista del film di Paola Cortellesi
Ciao!
Questo è il secondo numero di “Ci vuole un villaggio”, la newsletter che prova a raccontare il mondo dal punto di vista della genitorialità, e non può che iniziare con un grazie a te che ti sei iscritto e stai leggendo: due settimane fa è uscito il primo numero e in tanti lo hanno letto, commentato, inoltrato. Che dire? Grazie grazie grazie 🧡
Spero davvero che, numero dopo numero, quello col villaggio possa diventare sempre più un appuntamento utile e interessante.
Ma ora cominciamo, ho un po’ di cose da raccontarti.
Alla ricerca del tempo perduto
C’è una parola intorno alla quale mi arrovello da un po’: tempo. Il tempo che scappa via, il tempo che non c’è, quello che sembra non bastare mai. Sono tornata a pensarci qualche settimana fa quando nella chat di classe di mia figlia una mamma ha inoltrato una locandina dell’oratorio: si cercavano genitori volontari per qualche ora a settimana per le attività di segreteria, al bar e per aiutare i bambini col doposcuola. E ho pensato: “Oratorio o meno che sia, che bello sarebbe avere delle ore da mettere a disposizione così, liberamente”.
I tovaglioli di stoffa. Qualche giorno dopo sono venute a cena a casa mia un gruppo di amiche (mamme). Chi mi conosce, lo sa. Non sono proprio una cuoca di alto livello (diciamo che mi impegno). Per una volta, però, ho deciso: niente pizza da asporto. Ho passato il pomeriggio a cucinare e a preparare tutto per bene. È stata una di quelle belle serate nelle quali si fa tardi finendo a parlare di tutto meno di ciò per cui ci si era date appuntamento (nel nostro caso l’organizzazione di una gita fuori porta con i bambini). Il giorno successivo la mia amica Elisabetta mi ha mandato un vocale per ringraziarmi e dirmi che era stata bene, che si era sentita “coccolata”. “Erano anni che non usavo i tovaglioli di stoffa”, mi ha detto ridendo. E, in effetti, neanche io in una cena che non fosse quella di tutti i giorni tra me e mia figlia. Sono stata molto contenta e, ancora una volta, ho pensato: “Ma perché queste cose non riesco a farle più spesso? Mannaggia al tempo, che manca sempre”. Perché, in fondo, anche se non amo particolarmente cucinare, che chi viene a trovarmi a casa mia si senta “a casa”, appunto, mi rende felice. E il punto non sono certamente i manicaretti in sé e per sé (che, nel mio caso, sono piuttosto basic, tra l’altro) né la tavola apparecchiata con i tovaglioli di stoffa. Il punto è la cura e, più ancora, dedicare del tempo al prendersi cura, anche preparando una buona cena. Quel tempo che sentiamo scorrere via tra le mani troppo spesso e che, quando riesci a fermarlo, ha il potere di rendere speciale anche cose che, a ben guardare, dovrebbero essere piuttosto semplici.
La chiamano “rush hour of life”. Non credo che, queste mie intorno ai tovaglioli di stoffa, siano riflessioni sorte dal nulla. Quello del tempo è un concetto intorno al quale giro da un po’, anche nelle mie cose di lavoro, e che credo che abbia molto a che fare con il tema del villaggio che manca.
Perché, in effetti, se non hai tempo da investire nelle relazioni con gli altri, per fermarti, parlare con le persone, fare con loro delle cose, ascoltarle e ascoltare te stesso, il villaggio finisce per forza di cose per smantellarsi da solo, un pezzo alla volta, fino a sparire.
Dal punto di vista genitoriale, ne ho parlato negli ultimi mesi con due persone che stimo molto per il lavoro che fanno: l’economista Azzurra Rinaldi e la psicologa e psicoterapeuta Giovanna Gorla. Ne ho uscito un pezzo che è sul numero di novembre del magazine Giovani Genitori e che si intitola “Ma quanto corri?” (puoi leggerlo per intero qui, a pagina 18). Prende spunto dall’espressione che si sono inventati nei Paesi del Nord Europa per definire il senso di affanno e sfinimento che colpisce spessissimo le donne tra i 30 e i 45 anni, la "rush hour of life": quel momento della vita nel quale, cioè, si corre senza sosta, con l’impressione di non potersi fermare mai. Senza arrivare mai. Con conseguenze pesanti sia a livello individuale che collettivo, che investono molteplici aspetti: il benessere psicologico individuale, il rapporto con i bambini e di coppia, fino al PIL nazionale. Posto che – come hanno concordato entrambe le mie interlocutrici - è solamente in una revisione completa delle misure pubbliche a sostegno della genitorialità e in una visione culturale diversa dell'essere genitori oggi che può risolversi davvero questa corsa infinita che rischia di travolgerci, ci sono parole che mi ha detto la psicologa Giovanna Gorla che investono una dimensione più personale e che ho trovato preziose:
“Viviamo in un tempo complesso, nel quale al singolo è richiesto molto – e alle donne anche di più. Questa sensazione di non riuscire ad arrivare, di essere sempre un po’ in rincorsa e affollati di ‘cose da fare’ è condivisa. Ma possiamo chiederci: e se ce ne stessimo mettendo troppe, di cose? Sia a livello individuale che familiare ha senso fermarsi ogni tanto, ascoltarsi per capire cosa ci fa stare bene e cosa no, cosa può essere cambiato, cosa è davvero importante per noi e cosa, invece, si può lasciare andare. E mettere in discussione l’idea che il ‘riuscire a fare tutto’ sia necessariamente la soluzione, pensando che può esserci anche un altro modo di vivere”.
Lo spazio pubblico. Una suggestione su questo “altro modo di vivere” l’avevo trovata la scorsa primavera nel libro dei filosofi di Andrea Colamedici e Maura Gancitano “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo”. L’ho letto perché, scrivendo spesso anche di lavoro, mi serviva collocare in una cornice più ampia tutto il dibattito di questi anni post-pandemia sul fatto che le persone abbiano iniziato a ricollocare su un piano diverso il ruolo che ha il lavoro nella propria vita, che cerchino la via di un equilibrio più sano tra tempo professionale e tempo privato, che non siano più disposte ad accettare determinate condizioni (ne ho scritto, per esempio, qui). E l’ho letto perché anche io, come molti, mi domando spesso: “Ma chi me lo fa fare?”. Ecco, una via possibile suggerita in questo saggio, che mi para tenere insieme il villaggio con le ore libere all’oratorio o dove si vuole, i tovaglioli di stoffa con la necessità di “lasciare andare” e scegliere a cosa e chi dare valore nell’infinita “to do list” che ognuno di noi ha, è questa:
“Per riscoprire il senso del lavoro, e quindi, della vita dobbiamo lavorare meno, e dedicare quelle ore recuperate non solo all’ozio, ma anche – e forse soprattutto – alla vita politica, alla partecipazione, alla gestione collettiva, reinventando in questo modo lo spazio pubblico”.
Forse, quel tempo che ci pare di aver perso, è proprio nel villaggio che dovremmo andare a ricercarlo. E (senza forse) la chiave di una miglior qualità della vita, anche genitoriale, non può non passare, prima di tutto, da un modo diverso di intendere e vivere il lavoro. Ma di questo torneremo a parlare.
Però, c’è ancora domani
Per rimanere in ambito “temporale”, nelle scorse settimane ho visto al cinema – come molti, visto che ha sbancato il botteghino – “C’è ancora domani”, il primo film da regista di Paola Cortellesi. Racconta la storia di una donna, Delia, e di una famiglia, nell’immediato Dopoguerra. L’ho trovato un film importante e necessario, per il tema che tocca – la violenza domestica e i diritti – e per alcune scelte stilistiche, come quella di raccontare la violenza, appunto, “senza violenza”: tutto è in uno sguardo, in una persiana che si chiude, nel controcanto della bellissima colonna sonora. Anche perché, lo sappiamo bene, a volte basta molto meno di uno schiaffo.
La vita intima. Mi ha ricordato molto un libro che ho letto l’estate scorsa, “Quaderno proibito”, di Alba de Céspedes, romanzo del 1952 che racconta il piccolo segreto di una madre di famiglia di allora: un quaderno “nascosto” ai familiari (letteralmente, nei cassetti della biancheria, nel cestone degli stracci, nelle vecchie valigie – proprio come la “lettera” intorno alla quale gira il film di Cortellesi, nascosta tra i fazzoletti di stoffa). Qui la protagonista Valeria inizia a raccontare le proprie giornate svelando a noi e a sé stessa una vita interiore altra da quella esteriore fatta delle cose di tutti i giorni che nei primi anni Cinquanta davano forma e sostanza, almeno in superficie, all’esistenza di una donna di quarant’anni. Un “tributo a una generazione pre-femminista decisiva per tutte le rivoluzioni successive”, è stato definito questo romanzo, proprio come l’omaggio di Cortellesi che - ha raccontato lei stessa - con questo film ha voluto “celebrare tutte quelle persone che hanno costruito il tessuto sociale di questo Paese e non sono mai state ringraziate”.
Cosa mi ha colpito. Sono molte le cose che mi avevano colpito di quel libro e le cui sensazioni ho ritrovato in “C’è ancora domani”. Prima tra tutte la consapevolezza che molto è cambiato da allora. Certamente, non abbastanza. Mi riferisco ai dati sui femminicidi in Italia, che ci dicono che la violenza sulle donne continua a essere perpetrata soprattutto tra le mure domestiche e dagli uomini che più ci sono vicini - e ce lo stiamo ricordando bene in queste ultime ore, ancora una volta. Mi viene in mente quello “Stai zitta, che ne vuoi sapere tu!” che ancora oggi, spesso in maniera neanche meno esplicita e in ogni caso altrettanto svilente, molte donne si sentono dire da un uomo quando entrano in discorsi che si ritiene non competano loro (mansplaining è chiamato, e lo ha spiegato benissimo Michela Murgia nel suo “Stai zitta”, appunto). Penso anche a un certo andamento dei moti interiori dai quali, da donne e da madri, a volte, facciamo ancora oggi fatica a prendere le distanze: i figli che vengono prima di ogni cosa sempre e comunque, la conferma a noi stesse che cerchiamo nello sguardo altrui – soprattutto maschile – certe giustificazioni allo sbilanciamento dei carichi di cura. Penso a quanto sentiamo vicina Delia, perché in lei riconosciamo qualcosa di noi, quando si ammazza di lavoro e fatica e fa la “cresta” sui soldi da consegnare al marito solo per comprare l’abito da sposa alla figlia o quando giustifica il marito farabutto perché lui “ha fatto due guerre”, o a Valeria, che riscopre una parte di stessa sopita nelle attenzioni dell’uomo del quale si innamora sul lavoro.
Per fortuna, sentiamo vicinissima Delia anche quando, nonostante tutto, continua a credere con fermezza e fiducia che “però c’è ancora domani” per cambiare le cose. E poi le cambia. E per averlo fatto, per aver fatto la loro, immensa parte, a Delia e a Valeria dobbiamo dire un enorme grazie.
🖤 ps. Gran parte di questa newsletter è stata scritta, un pezzo alla volta, nelle ultime due settimane. Poi, in questi giorni, anche io come tutti mi sono ritrovata a controllare le notizie sperando di non leggerci quella che sapevamo già sarebbe arrivata. Ieri mi sono chiesta a lungo se, di fronte alla sgomento, al dolore e alla rabbia per la morte - l’ennesima - di Giulia Cecchettin, tutte queste parole avessero un senso. Sono stata tentata di cancellare ogni cosa, ma la pagina sarebbe rimasta bianca, non avrei saputo cosa scrivere. O, meglio, troppi erano i pensieri che si affastellavano:
Perché, di fronte a certe storie, continua a emergere la narrazione del “però lui era un bravo ragazzo”, “però anche lei poteva, doveva…”? Che responsabilità ha ciascuno di noi come membro di una società nella quale le donne vengono uccise ancora ancora e ancora? Perché lo Stato non interviene in maniera strutturale, che significa anche metterci i soldi, per esempio finanziando l’educazione all’affettività nelle scuole e sostenendo le donne che denunciano e si allontanano da maltrattamenti e violenze?
Mentre provavo a mettere ordine nei pensieri, sui social ha iniziato a girare la poesia dell’attivista peruviana Cristina Torres Cáceres diffusa da Elena, la sorella di Giulia. Dopo averla letta, ho deciso di lasciare gran parte di quello che avevo già scritto e che, con Giulia, sembra c’entrare poco e, invece, c’entra perché ha a che fare con concetti come cura, educazione, collettività.
La poesia si chiude così:
Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l'ultima.
A Giulia, a tutte le Giulia di ieri e di oggi: sì, siamo pronte a distruggere tutto. E poi a ricostruire.
📩 Intanto, mentre il cuore è pesante mentre scrivo queste ultime righe, grazie ancora a te per aver letto fino a qui. Se ti va di dirmi cosa ne pensi, scrivimi: mi farebbe davvero piacere.
📚 Per il prossimo numero, tra due settimane, sto pensando di parlare di libri, che rimangono uno degli strumenti migliori per cambiare le narrazioni e, a cascata, il mondo. Sarà un “ricapitolone”, con un po’ di titoli che ho letto quest’anno e che ho trovato belli, utili, interessanti. Magari potrai trovarci anche qualche idea per i regali di Natale. Ti aspetto!
🧡 E se la newsletter ti è piaciuta, puoi mettere un cuoricino, inoltrarla a chi vuoi e invitarlo a iscriverti.
Grazie degli spunti preziosi, grazie perchè ci dai la possibilità di prenderci del tempo per riflettere.
I tovaglioli di stoffa sono indicativi, teniamoli davvero come simbolo di una nuova consapevolezza.
Attendiamo la lista dei libri con tanta impazienza.
Grazie a te, Eli, per il supporto e l'affetto 🧡 L'idea di questa newsletter e tanti dei pensieri e delle riflessioni che qui stanno trovando spazio (proprio come quella sui tovaglioli!) nascono anche da molte delle nostre chiacchierate 🧡