#21 Ci vuole un villaggio I L'istinto materno non esiste
Riflessioni, libri e progetti che ci ricordano che essere genitori è qualcosa che si impara. Ed è la parte più bella di questo "duro lavoro"
Ciao!
Che bello tornare a scrivere questa newsletter! Ultimamente, tenere fede alla periodicità delle due settimane è proprio difficile ma, insomma, l’importante è non smarrire il filo del discorso. E non perderci di vista. Quindi, eccoci qui, con un numero che prova a mettere in fila un po’ di spunti che ho intercettato in queste settimane: come Pollicino con le sue briciole di pane, proviamo a seguirli e vediamo dove ci portano.

Non smettere di “educarci”
In occasione del 25 novembre, per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, sul profilo IG del magazine Giovani Genitori ho fatto una bella chiacchierata con Giulia Marchesi e Francesca Palazzetti, rispettivamente psicologa e sessuologa e doula, entrambe esperte di educazione sessuale. Il tema era l’educazione al consenso come forma di prevenzione e contrasto alla violenza di genere. Del merito della questione, ci siamo dette con Giulia e Francesca, torneremo a parlarne presto, anche in questa newsletter (intanto qui puoi rivedere la diretta: ti consiglio di farlo, è preziosa). C’è, però, una riflessione laterale che ho fatto mentre ascoltavo le mie interlocutrici. Ha a che fare con l’idea di educazione: quella di noi genitori. Vale per il consenso, ma anche per tantissimi altri temi, ad esempio il digitale. Ci aspettiamo che bambine e bambini imparino in qualche modo a regolarsi quando hanno in mano uno smartphone, ma noi non sappiamo farlo. Ci chiediamo come sia possibile che ancora oggi ragazzi e ragazze intorno ai 15 anni percepiscano gelosia e controllo come un atto d’amore e poi siamo i primi a fare la battuta: “Ah, ma papà fino ai 30 anni non ti fa mica uscire!". Sembrano banalità, ma la verità è che molte cose, semplicemente, non le vediamo perché non siamo abituati a vederle, perché nessuno ce le ha spiegate, perché sono “nuove” anche per noi (come nel caso di device e social), perché fanno parte dell’evoluzione dei tempi, della cultura, delle consapevolezze.
Mentre discutevamo con Giulia e Francesca, riflettevo su quanto l’essere genitori offra, da questo punto di vista, un’opportunità preziosa: quella di non smettere di mettersi in discussione, di alzare l’asticella della consapevolezza, di aprirsi al confronto. Di educarsi prima di educare. Non ritengo affatto sia una prerogativa esclusiva della genitorialità - e credo, anzi, che dovrebbe essere, quella di rimanere curiosi e aprirsi a nuove versioni di sé, una possibilità che nessuno dovrebbe negarsi, qualunque siano le esperienze che la vita porta a fare. Certamente, però, l’essere genitori è una di quelle a servirti questa opportunità su un piatto d’argento: riuscire a coglierla è la parte forse più bella di questo pezzo di vita che, per altri versi, sa essere anche molto faticoso e sfidante.
Cosa c’entra l’istinto?
Ma cosa c’entra tutto ciò con l’oggetto di questo numero della newsletter? Per deduzione, mi sono ricordata che, se essere genitori significa anche educarsi, allora è qualcosa che si può imparare a fare più che una dote innata o istintiva, come quella che si è soliti attribuire alle madri. È un discorso che qui abbiamo già fatto, ad esempio parlando, qualche numero fa, di paternità e congedi parentali.
Anche se ci scontriamo ancora con un’ampia narrazione che sostiene il contrario, la scienza ha ormai pochi dubbi: l’istinto (materno) non esiste. O, meglio, se di “istinto” vogliamo parlare, dobbiamo intenderlo piuttosto come una conoscenza mediata dalla biologia e dalla rappresentazione culturale della figura e del ruolo della madre che si è stratificata nel tempo. Ci aspettiamo, cioè, che la madre abbia una sorta di “conoscenza innata” del proprio figlio ma essa, più che essere naturale, istintiva, per l’appunto, è dovuta piuttosto “all’interiorizzazione dell’archetipo cultuale della donna/madre, al modo in cui è stata socializzata nel corso degli anni in base ai ruoli di genere dominanti e alle pressioni dell’ambiente e dei pari”. La citazione è da un articolo pubblicato il marzo scorso su “Medico e bambino”, a cura del Centro per la Salute del Bambino, intitolato “Il mito dell’istinto materno: madri (e padri) non si nasce, si diventa”. È una lettura breve, che ti consiglio, perché spiega la questione molto chiaramente, anche rispetto ai sentimenti di inadeguatezza che vivono molte madri che l’istinto materno non lo provano, alla legittimazione delle diverse forme di genitorialità, alla valorizzazione del villaggio come strumento per una genitorialità diffusa:
“Riconoscere che madri e padri si diventa, non si nasce, ci permette di fare due passi avanti: il primo è riconoscere che il ‘nostro’ modo di esserlo è uno dei tanti possibili (sia nel raffronto storico con le figure di madri e padri del nostro passato, sia in quello sincronico con altre culture e società) e che questi ruoli cambiano o possono cambiare nel tempo e nello spazio in base all’evoluzione di una data cultura e società; il secondo invece è capire fino in fondo quale sia l’importanza di ‘prepararsi a diventare genitori’, di acquisire conoscenze e competenze. Dobbiamo renderci conto che sostenere la genitorialità significa soprattutto stare al fianco dei neogenitori in questo percorso di crescita e conoscenza, significa metterli nelle condizioni di affrontare la nascita e la crescita di una figlia o di un figlio in un ambiente favorevole e benevolo, all’interno di una comunità accudente e plurale, significa non lasciarli soli. Se le competenze genitoriali si apprendono ‘in corso d’opera’ attraverso la pratica e l’esperienza - madri e padri non si nasce, si diventa - è dunque necessario che la società, le istituzioni e la politica rendano legittima e possibile questa pratica di co-genitorialità fin dalla nascita, intervenendo attivamente in un processo che evidentemente non ha niente di spontaneo e ‘naturale’ e investendo strutturalmente in risorse umane e materiali per prevenire disagio e problematiche sociali ben più sfidanti che potrebbero insorgere in futuro”.
Tradotto: investendo nel villaggio.
Due libri, due prospettive
Non è forse un caso che, mentre riflettevo su queste cose, mi sia imbattuta in due libri pubblicati da poco che sviluppano il medesimo tema in maniera, di fatto, speculare. Premessa doverosa: non li ho ancora letti, ma l’autorevolezza delle autrici è tale per cui direi che possiamo fidarci e metterli insieme nella letterina a Babbo Natale.
Il primo è l’ultimo saggio dell’antropologa inglese Sarah Blaffer Hrdy, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri. Si intitola “Il tempo dei padri. L’istinto maschile nella cura dei figli”. Oggi un numero crescente di uomini si occupa dei bambini fin dalla nascita e mostra di saperlo fare benissimo. Com’è possibile - si interroga Blaffer Hrdy guardando anche a quello che avviene in casa propria, ai giovani padri che ha intorno come il figlio e il genero - se la biologia ha sempre sostenuto che quella fosse una prerogativa materna? Passando al vaglio le più recenti scoperte delle neuroscienze, della genetica, dell’antropologia, dell’endocrinologia la studiosa ricostruisce come la trasformazione dei padri alla quale stiamo assistendo non sia solamente un dato culturale, ma abbia anche fondamenti biologici: è la scienza che sta dimostrando come gli uomini, a contatto intimo e prolungato con i bambini, cambino profondamente, mostrando risposte quasi identiche a quelle delle madri, e sviluppino un potenziale di cura inaspettato. Una prospettiva che cambia tutto, non solamente rispetto al paterno, ma anche rispetto alla mascolinità.
Il secondo libro è la nuova edizione, pubblicata da Tlon, di “L’amore in più. Storia dell’amore materno”, il saggio della filosofa Élisabeth Badinter che quando uscì per la prima volta, nel 1980, ribaltò dalle fondamenta tutto il discorso sull’istinto materno parlandone per la prima volta, su base storica e psicologica, non più come un’inclinazione naturale e universale, ma come di una costruzione sociale. “Questo saggio rivoluzionario - si legge nella presentazione - mantiene intatto il suo messaggio di emancipazione. Quante donne soffrono perché non si sentono animate dal cosiddetto istinto materno? Quante si sentono inadeguate di fronte alle enormi aspettative che la maternità sembra comportare? Badinter libera le donne di ieri e di oggi affermando che non c’è nulla di sbagliato in loro. L’amore materno non è innato. Può esserci come non esserci. Quello materno è un amore in più”.
Facciamo villaggio
L’ultima briciolina di questo percorso fatto di suggestioni la raccogliamo da una “buona pratica” che aiuta a fare villaggio: un progetto europeo che si basa sugli assunti teorici di cui abbiamo parlato finora e sull’idea che il coinvolgimento da subito, pratico ed empatico dei padri nella genitorialità, abbia numerosi effetti positivi sui piani psicofisico e sociale. Si intitola 4e-parent-project e punta a “promuovere una genitorialità equa e responsabile di tutti i genitori, compresi quelli dello stesso sesso, lavorando alla decostruzione degli stereotipi di genere che rendono difficile lo sviluppo di una mascolinità accudente e di una genitorialità ampia e soddisfacente per tutte le componenti della famiglia.” Le 4 “e” che danno il nome al progetto stanno proprio a indicare la promozione di una partecipazione dei padri all’accudimento che sia immediata (Early), paritetica (Equal), attiva e pratica (Engaged) ed empatica (Empathetic). Finanziato dalla Commissione Europea e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, negli ultimi due anni 4e-parent-project ha attivato diverse iniziative di sensibilizzazione e formazione sul tema della genitorialità equa e condivisa, compresa una newsletter che viaggia anch’essa su Substack (la trovi qui, se vuoi seguirla).
Mentre riguardavo il lavoro portato avanti da questa iniziativa per scriverne, mi è caduto l’occhio sull’obiettivo ufficiale indicato dal progetto, che è - si legge nel sito - la promozione dell’impegno dei padri nella cura e di una mascolinità accudente “come mezzi per prevenire la violenza di genere”.
Tutto torna, mi è venuto da pensare. E anche col discorso che abbiamo provato a sviluppare qui, seppur solo per idee e spunti, siamo riusciti in qualche modo a tornare a casa.
Prima di salutarci in attesa dello, spero non lontano, prossimo numero, volevo dirti ancora una volta: grazie 🧡. Un mesetto fa, anche se in sordina, questa newsletter ha compiuto un anno: imperfetta, ritardataria, sempre un po’ troppo lunga, è stata e continua a essere per me uno spazio prezioso per mettere a fuoco riflessioni e storie, con l’idea - sempre più radicata - che il villaggio, nelle sue più ampie accezioni, sia davvero ciò di cui abbiamo più bisogno in questi tempi difficili. Spero lo sia diventato anche per te che stai leggendo 🧡
Torniamo a sentirci prestissimo, promesso!
Intanto, se questa newsletter ti è piaciuta, ti ricordo che puoi mettere un cuoricino e inoltrarla a chi vuoi da qui:
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.