#25 Ci vuole un villaggio I Parliamo (ancora) di scuola
Notizie, testimonianze, buone (e cattive) pratiche
Ciao!
Io sono Silvia De Bernardin e questa è “Ci vuole un villaggio”, la newsletter che racconta il cantiere del nuovo villaggio, quello che ancora oggi serve per crescere bambine e bambini. Se questo numero ti è stato inoltrato, puoi iscriverti per riceverla direttamente nella tua casella email ogni due settimane dal bottone qui sotto:
Prima di cominciare: grazie! Grazie a tutte le persone che hanno letto, condiviso e commentato con attenzione e sensibilità l’ultimo numero della newsletter con l’intervista all’antropologa Martina Riina sull’allattamento e il suo rapporto con il divario sociale. Era un numero al quale tenevo particolarmente ed è sempre bello, quando scrivi, sapere che c’è chi trova nelle tue parole spunti di riflessione, idee, occasioni di confronto. Grazie anche a chi, proprio leggendo quel numero, ha dato fiducia a questo villaggio iscrivendosi alla newsletter: spero che non te ne pentirai.
E ora partiamo, ancora una volta parlando di scuola.

Storie di scuola
Nelle scorse settimane di scuola si è discusso molto a proposito delle Nuove Indicazioni Nazionali per il primo ciclo scolastico presentate dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, che dovrebbero entrare in vigore dall’anno scolastico 2026-2027. Le novità sono molte e, come probabilmente avrai avuto modo di leggere, hanno sollevato un bel dibattito: ci sarà il ritorno del latino (facoltativo) alla scuola media, l’eliminazione della geostoria alle superiori sostituita dalla storia - con focus su quella italiana - il potenziamento della musica e della lettura, anche di quella della Bibbia. Posto che bisognerà vedere come tutto questo verrà calato nella pratica quotidiana, come tutti mi sono fatta delle idee, che vanno dall’apprezzamento dell’impegno sulla musica e la lettura e, in parte, anche sul latino, al non capire perché il potenziamento della lettura debba partire dalla Bibbia, allo scetticismo sul fatto di legare l’utile rafforzamento dello studio della grammatica al concetto di rispetto dell’ordine e delle regole, così come è stato presentato dal ministro.
Poi è successo che negli stessi giorni, per caso o serendipità, mi sia imbattuta in una serie di storie, notizie e testimonianze che raccontano una scuola fatta di vissuti, necessità - e anche buone pratiche - spesso parecchio scollate dalle priorità indicate in quella riforma. Mi sono chiesta quanto la burocrazia dei programmi ministeriali riesca a interpretare i bisogni reali di un mondo, come quello della scuola, così complesso e sfaccettato, anche territorialmente, e a restituire una risposta non ideologica, concreta, aderente ai tempi, anche mettendoci le risorse economiche che servono.
Ho pensato che in questo numero potesse valere la pena condividere questi contributi, metterli in circolo per provare a fare una riflessione un po’ più ampia. Eccoli.
Dante in periferia
Il primo è quello di Emiliano Sbaraglia, insegnante romano che ha appena pubblicato il libro Leggere Dante a Tor Bella Monaca nel quale - parafrasando il celebre Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi - racconta della sua esperienza decennale in una scuola media del quartiere popolare della Capitale. Il racconto ruota intorno alla proposta di lettura di Dante e di altri classici in un contesto caratterizzato da uno dei tassi di abbandono scolastico tra i più alti d’Italia e dalla presenza della criminalità e dello spaccio. Nel podcast Voce ai libri Sbaraglia racconta del libro e della sua esperienza di insegnamento. Mi ha colpito ciò che dice a proposito degli insegnanti che, come lui, lavorano in realtà complesse e che, più che “insegnanti di frontiera” o “missionari”, dovrebbero essere considerati “insegnanti professionisti”:
“Nella retorica di quella definizione - dice Sbaraglia - c’è di sbagliato una descrizione del ruolo dell’insegnante, e di conseguenza di determinati contesti, che non avvantaggia nell’insegnate né il contesto. Forse, poteva andare bene nel secolo scorso: io credo che nel XXI secolo, per come è cambiato e si è mescolato il mondo, non sia più questione di essere ‘insegnanti missionari’, ma di capire in quale scuola e in quale classe ci si trova, con quali studenti - studenti e studentesse sono sempre diversi e questo è un bene - e poi operare di conseguenza”.
Mi pare una rivendicazione della professionalità del ruolo degli insegnanti importante, funzionale anche a evitare che il sostegno istituzionale che spetterebbe loro e che spesso manca non si risolva in una bonaria pacca sulla spalla. Uscire dalla retorica “missionaria” e applicare un approccio professionale, invece, può fare bene a chi insegna, ma anche ai ragazzi e alle ragazze, perché si adotti verso di loro uno sguardo meno compassionevole e più capace di riconoscere i loro diritti di studenti, dice Sbaraglia. Un esempio è proprio la lettura di Dante. “Non accetto che, visto che in certe scuole la cosa importante è imparare a leggere, scrivere e far di conto, non si possano proporre anche cose che hanno a che fare con il percorso naturale di qualsiasi altro studente. Perché a questi studenti deve essere precluso Dante? - si domanda il professore -. I ragazzi di oggi - soprattutto quelli che abitano nelle periferie - non hanno bisogno solo di imparare a leggere e a fare le operazioni, ma di qualcuno che dia loro speranza”. E sì, Dante può essere un valido aiuto.
Le condizioni giuste
A proposito del punto di vista degli insegnanti, ti consiglio anche Essere docenti oggi. Sfide, resistenze e passioni nel contesto educativo del 2024, articolo pubblicato lo scorso novembre da Altreconomia con la testimonianza di due di loro. Faccio fatica a farne un riassunto perché è un racconto densissimo, del quale ogni riga merita attenzione - e che per questo ti consiglio davvero di leggere. Anche questi prof. raccontano di una grande solitudine professionale e di quanto poco di eroico e poetico, alla Attimo fuggente, ci sia nell’isolamento nel quale lavorano, all’interno di un sistema fatto di regole e burocrazia completamente sganciate dalla realtà quotidiana:
“Quello che mi fa andare avanti, nonostante tutto, è vedere i progressi dei bambini, quei momenti di scoperta e crescita che rendono tutto questo sforzo significativo. Ma non posso fare a meno di chiedermi - dice uno di loro -quanto potremmo fare di più se avessimo le condizioni giuste per lavorare. La scuola pubblica ha un potenziale enorme come strumento di crescita e trasformazione sociale, ma sembra che questo potenziale venga sistematicamente sacrificato sull’altare del risparmio e dell’efficienza burocratica”.
Scuola e crisi climatica
I due insegnanti, a un certo punto del loro racconto, evidenziano il fatto che “la scuola oggi deve preparare i giovani a un mondo in rapido cambiamento, dove le competenze più importanti saranno proprio quelle sociali ed emotive: la capacità di adattarsi, di lavorare in gruppo, di risolvere problemi in modo creativo”. Parole che mi hanno ricordato un’altra delle letture di questi giorni, il numero della newsletter , di Nicolas Lozito, intitolato L’aula che affonda, dedicato all’impatto della crisi climatica sull’istruzione. È una questione che non riguarda solamente i Paesi a basso reddito, ma molto da vicino anche l’Italia, come racconta Lozito a proposito delle ultime alluvioni in Emilia Romagna e citando i dati di un recente rapporto Unicef:
in Italia 916.325 alunni sono stati a casa almeno un giorno a causa di alluvioni, tempeste o siccità nel 2024, ed è il dato più alto in Europa.
D’altronde, il nostro è uno dei Paese hotspot della crisi climatica, anche se spesso ce ne dimentichiamo. Eppure, il 70% degli edifici scolastici italiani continua a non essere a norma, figuriamoci se possono essere pronti ad affrontare l’impatto della crisi climatica. Per fortuna, come racconta Lozito, ogni tanto qualcosa si muove e progetti innovativi ci sono, come quello di un asilo di Faenza che, spazzato via dall’alluvione, sta per essere ricostruito per resistere a eventuali future inondazioni. Poi, c’è l’altro aspetto della questione, quello didattico: rispetto a quello che dicevano i due prof., mi sono chiesta: quanto stiamo preparando i ragazzi e le ragazze a essere resilienti rispetto a questo “mondo in rapido cambiamento” (e decisamente più caldo?) Di questo argomento abbiamo già parlato qualche numero fa (qui): ecco, le Nuove Indicazioni Nazionali sarebbero state l’occasione perfetta per riconoscere un ruolo forte all’educazione climatica a scuola, non lasciando che il tema venga affrontato solamente sulla base della buona volontà e della sensibilità personale di singoli insegnanti e istituti. Chiudo con le parole di Lozito, che mi paiono perfette:
“L’istruzione non è solo un diritto: è lo strumento più potente che abbiamo per affrontare il cambiamento climatico. […] Ma questa vittoria richiede un impegno collettivo: investire nelle scuole, proteggere i più vulnerabili, formare insegnanti e poi offrire loro le risorse necessarie per svolgere al meglio il loro lavoro”.
Gli asili nido che mancano
A proposito di edilizia scolastica, segnalo anche il bel pezzo di Luca Martinelli, sempre su Altreconomia, Quando il potenziamento di asili nido e scuole per l’infanzia aggrava i divari territoriali: è un’analisi puntuale di come avrebbero dovuto essere spesi i soldi del PNRR e le risorse nazionali collegate (in totale circa 4 miliardi di euro) per potenziale davvero la rete sul territorio dei servizi per la prima infanzia, dei nidi in modo particolare, e raggiungere gli obiettivi prefissati. Ovvero, che tra asili pubblici e privati si riesca a garantite una disponibilità di posti pari ad almeno il 33% del numero dei bambini sotto i 3 anni a livello nazionale e ad almeno il 15% a livello regionale. Invece, non solo i fondi sono stati ridotti e ci sono ritardi, ma per vincoli burocratici di assegnazione le risorse serviranno poco lì dove ce ne sarebbe, invece, più bisogno, ovvero nelle aree interne e nei piccoli paesi, dove la presenza di asili e scuole è fondamentale per arginare lo spopolamento:
“La strada scelta e percorsa dall’Italia, però, è un altra - scrive Martinelli -. Infatti è l’Istat a rendere evidente che cosa sta accadendo e con tutta probabilità continuerà ad accadere, nell’ultimo rapporto dedicato a ‘Offerta di nidi e servizi integrativi per la prima infanzia’, pubblicato nel novembre 2023: ‘Si stima anche una grande frequenza delle richieste di iscrizione non accolte per carenza di posti: il 63% dei nidi pubblici e il 40,7% dei privati non hanno accolto ad inizio anno tutte le domande pervenute. Soprattutto nel Mezzogiorno è stata avvertita di più la pressione sui servizi da parte delle famiglie e le barriere all’accesso hanno lasciato dei bambini in lista d’attesa in oltre due terzi delle unità di offerta pubbliche e in quasi la metà di quelle private”. Un problema di accesso che, ora lo sappiamo, gli interventi realizzati con i fondi del Pnrr non risolveranno”.
Più volte in questa newsletter abbiamo parlato dell’importanza dei nidi come servizio alle famiglie, ma anche strumento per ridurre il divario educativo, come leva per sostenere l’occupazione femminile e, in ultima analisi, anche come mezzo per incoraggiare la “natalità” di cui tanto si parla. E, invece, pare che anche questa volta andrà diversamente.
L’educazione sessuale e affettiva
Se parliamo di fondi, c’è da segnalare anche il cambio di rotta che hanno subito quelli che, secondo la manovra di bilancio approvata lo scorso dicembre, avrebbero dovuto essere indirizzati all’educazione sessuale e affettiva nelle scuole superiori: 500mila euro (già di per sé non una grande cifra) che su iniziativa del Governo - ancora in un’ottica natalista - andranno, invece, a finanziare la formazione degli insegnanti sul tema dell’infertilità maschile e femminile (la questione è spiegata nel dettaglio qui).
Senza entrare nel merito della prevenzione e contrasto della violenza di genere collegate all’educazione sessuo-affettiva, ricordo solamente i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, che recentemente ha segnalato un aumento delle malattie sessualmente trasmissibili, soprattutto tra i giovanissimi under 25, a causa dell’ampia disinformazione sul tema, in famiglia e a scuola.
L’educazione digitale
Chiudo con un mio articolo, che è uscito in questi giorni sul numero di febbraio di Vegolosi MAG e si intitola “Ragazzi con lo smartphone”. Torno sulla questione del rapporto tra benessere dei bambini e delle bambine e uso precoce dei device e dei social, a partire da una serie di dati di cui anche qui abbiamo parlato più volte e dalla lettura di La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli, il best seller dello psicologo Jonathan Haidt. Mi sono soffermata molto, in questo pezzo, sull’esperienza dei “patti digitali”, ovvero di quelle alleanze tra famiglie, genitori e realtà del territorio che insieme stabiliscono e condividono regole comuni sull’età alla quale concedere telefono personale e accesso ai social e sulle modalità de loro utilizzo, oltre a organizzare momenti di educazione digitale sia per gli adulti che per i ragazzi.
Proprio nei giorni scorsi si è tenuta la seconda edizione del meeting nazionale dei patti digitali ed è venuto fuori che sono già 103 quelli attivi al momento, sottoscritti in 14 diverse Regioni italiane, altri 40 sono in arrivo e dovrebbero arrivare a coinvolgere, entro l’anno, oltre 10mila genitori. Mi pare una bellissima notizia, soprattutto per il metodo che sta alla base di questo progetto, con la comunità a farsi carico, in maniera condivisa, di scelte educative complesse. Non a caso, il claim scelto anche per questa seconda edizione del convegno fa riferimento all’idea del villaggio: “Il villaggio cresce”, recita. E suona davvero bene.
Su questo tema ti segnalo anche che domani, 11 febbraio, è l’Internet Safer Day, ovvero la giornata internazionale per la sicurezza in rete, e molte sono le iniziative dedicate un po’ ovunque proprio alla consapevolezza digitale dei ragazzi e delle ragazze. A promuovere questa giornata in Italia è il progetto europeo Generazioni Connesse sul cui sito si trovano molti materiali, consigli e guide pratiche anche per genitori e insegnanti.
Spero che tu abbia trovato questi approfondimenti interessanti, ma prima di salutarci ti chiedo: di bei progetti le nostre scuole sono piene, spesso hanno solo bisogno di essere sostenuti, conosciuti, condivisi. Se ne conosci anche tu e ti va di segnalarmeli, proviamo a metterli in rete? Come dimostrano molte delle storie che abbiamo letto, pur tra tante difficoltà, spesso le cose si cambiano più facilmente dal basso, insieme. Puoi scrivermi nei commenti da questo bottone:
Noi ci sentiamo tra due settimane!
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.