#5 Ci vuole un villaggio I “Quando mi comprate il cellulare?”
Il progetto del Comune di Milano di un "Patto digitale" per condividere l'annosa questione "cellulare" ai ragazzini, con qualche consiglio pratico. E una riflessione, ancora, sul tema della natalità
Ciao!
Rieccoci qui, in un anno tutto nuovo, con quelle sensazioni che solo gennaio e settembre sanno dare: che cose nuove e diverse possano accadere e, insieme, che il tempo di queste settimane scorra al rallentatore. È una percezione che, personalmente, avverto sempre in questo periodo. Capita anche a te?
Intanto, mi godo l’onda lunga del riposo delle vacanze: negli ultimi anni ho smesso di riempire le giornate a cavallo del Capodanno di analisi, bilanci ed elenchi di buoni propositi. Ho scoperto che se svuoto la testa camminando, dormendo, leggendo, guardando film, chiacchierando, godendomi il tempo con le mie persone, poi a un certo punto le cose - riflessioni, idee, progetti - arrivano da sole. Più nitide, e più leggere.
Ricominciamo. Quindi, senza eccedere in buoni propositi, posso dire per certo che questa rimane, anche nel 2024, “Ci vuole un villaggio”, la newsletter che racconta le cose che accadono dal punto di vista della genitorialità condivisa, quella che, appunto, si fa nel villaggio.
Quindi, iniziamo il nuovo anno: in questo numero parliamo di cellulari e, ancora, di natalità. E poi, come sempre, qualche suggerimento su cose da fare, vedere, leggere.
“Quando mi comprate il cellulare?”
Anche se mia figlia ha solamente 7 anni, sempre più spesso capita con altri genitori di bambini coetanei o un po’ più grandi di parlare del tema “cellulare”: quando darglielo, perché darglielo, come darglielo. La mia risposta di pancia è sempre: il più tardi possibile - che per me vorrebbe dire a scuola media quasi ultimata. Perché il mondo che c’è dentro gli smartphone mi spaventa, perché a volte faccio fatica io stessa, da adulta, a gestire il rapporto con l’iperconnessione, perché non mi piace l’idea di controllo che sento spesso dietro alla dotazione di cellulare ai ragazzini (“Così, se esce o va a scuola da solo, io posso sempre sapere dov’è con la geolocalizzazione”, mi ha detto più di una persona). Ma so anche che i ragazzi di oggi sono figli del loro tempo e che le paure vanno gestite con la conoscenza, che il rischio, più che nello strumento, sta nell’uso che se ne fa.
Un patto collettivo. Per questo, trovo molto interessante il progetto promosso dall’Università Bicocca insieme al Comune di Milano per la stesura di un “Patto educativo per il benessere e la sicurezza digitale a scuola e in famiglia”. Si tratta di un percorso di due anni, già avviato, nel quale attraverso momenti di discussione pubblica e focus group si stanno raccogliendo dati e informazioni con l’obiettivo di arrivare a firmare veri e propri "Patti educativi digitali" a livello territoriale. Ovvero, un insieme di regole e buone pratiche che siano condivise dalle famiglie e dalle scuole su come gestire il rapporto tra bambini e dispositivi digitali.
“Molto spesso i genitori si sentono impreparati a questo compito sia per mancanza di nozioni tecniche ma anche perché forti pressioni sociali e commerciali rendono difficile fare scelte consapevoli e adeguate, in un contesto in cui a volte tutto sembra inevitabile”, si legge nella presentazione del progetto.
“Una riflessione veramente collettiva su questi temi non è stata ancora fatta e la discussione mediatica, molto spesso legata a una retorica stereotipata tra tecno-ottimismo e tecno-pessimismo, non aiuta in questa direzione. Ciò che manca sono delle indicazioni su tematiche concrete per supportare le famiglie”.
Un esempio - sottolineano i promotori - è “una decisione collettiva sull’età a cui riteniamo che sia opportuno consegnare ai minori uno smartphone personale, evitando così l’effetto emulazione e la spinta alla precocizzazione continua che si è vista finora”. Un altro riguarda il rapporto con le scuole e le loro richieste di utilizzare la connessione durante i compiti a casa. Ovvero, “come è possibile sfruttare le potenzialità didattiche del digitale senza scaricare sulle famiglie l’onere di rendere sicuro l’ambiente di navigazione a casa?”. E poi, i social: “La norma che vieta l’accesso autonomo alle piattaforme prima dei 14 anni è in realtà quasi del tutto ignorata e le stesse iniziative di educazione digitale sono costrette a dare per scontato che essa non sia osservata”. Al solito, fatta la regola, trovato l’inganno: spesso i ragazzi stanno sui social ben prima dei 14 anni, inutile fare finta di niente.
Credo che il valore dell’iniziativa stia proprio nel fornire informazioni sui rischi e i pericoli legati all’utilizzo precoce dei dispositivi digitali, sia in termini di sicurezza che di salute e benessere, che diano la possibilità ai genitori di fare scelte consapevoli. Ma anche - ed è la cosa più interessante - di farle all’interno di una consapevolezza condivisa a livello di comunità territoriale. Ovvero, evitando di scaricare sulla singola famiglia la responsabilità di una decisione e della gestione di uno strumento che, in molti casi, vengono portate avanti perché “il cellulare ce l’hanno tutti, posso io non darlo a mio figlio?”. È quella che, nel progetto, viene definita “decisione collettiva”.
Oltre a Milano, molte altre realtà stanno attivando iniziative simili: mi pare un ottimo modo di “fare villaggio”. Intanto, se abiti a Milano e hai figli tra la terza elementare e la terza media, puoi partecipare al questionario attraverso il quale si stanno raccogliendo dati, idee e opinioni delle famiglie dei quali si terrà poi conto per la stesura del Patto. Lo trovi a questo link.
Una guida pratica. Alcune considerazioni e consigli molto pratici su quando e come dotare i ragazzi di device personali si trovano, invece, in questa guida del magazine UPPA, scritta dal pedagogista Cosimo di Bari: “Quando comprare lo smartphone ai propri figli?”. Un dato mi ha colpito molto: 1 bambino su 10 in Italia ha il suo smartphone personale già prima dei 6 anni. Il tema è, evidentemente, urgente.
Di natalità, ancora
Avrei anche evitato di parlarne visto che l’ho già fatto spesso in questi primi numeri della newsletter, ma le ultime settimane hanno fornito così tanti spunti sul tema che è inevitabile farlo.
I dati. Prima ci sono stati i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, quelli che hanno certificato le dimissioni, nel 2022, di 44.699 lavoratrici madri, che nella maggior parte dei casi (il 63,6%) hanno lasciato il lavoro per la difficoltà di conciliazione tra occupazione e cura dei figli, “sia per ragioni legate alla disponibilità di servizi di cura che per ragioni di carattere organizzativo riferite al proprio contesto lavorativo”. Nel caso dei padri (16.692 quelli che si sono dimessi, il 27,2% del totale dei genitori dimissionari, contro il 72,8% delle donne), questo tasso scende al 7,1%: nel 78,9% dei casi i padri si sono dimessi, infatti, per altri motivi, principalmente per passare a un’altra azienda e migliorare, dunque, la propria posizione professionale ed economica. Nel 92% dei casi al femminile, le dimissioni hanno riguardato impiegate e operaie. Per quadri e dirigenti, il numero è decisamente inferiore, ma comunque superiore a quello degli uomini. Ovvero, ha sottolineato l’Inl, “si deduce che la qualifica professionale non costituisce un argine a scelte di fuoriuscita dal contesto professionale in condizione di genitorialità”. Cioè, essere madre e lavoratrice allo stesso tempo non è sempre sostenibile, anche quando hai raggiunto posizioni professionali apicali. Infine, l’età dei figli di chi si dimette: quella prevalente è sino a 1 anno (nel 50% dei casi), dato che testimonia “come la fascia critica per restare nel mercato del lavoro sia proprio immediatamente dopo la maternità”. Sono dati importanti, se messi in relazione al tema natalità: gli studi sul tema danno, infatti, ormai per assodato che, nei Paesi ad alto reddito, si fanno più figli lì dove le donne partecipano maggiormente al mercato del lavoro.
Le dichiarazioni. Poi, ci sono state le dichiarazioni, quelle della senatrice di Fdl Lavinia Mennuni, che ha detto che “la prima aspirazione” di una donna dovrebbe essere quella di essere madre, e quelle della premier Giorgia Meloni, che ha indicato sé stessa, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (7 figli) e quella del Parlamento europeo, Roberta Metsola (4 figli) come esempi del “ce la si può fare” - con buona pace dei dati dell’Ispettorato del Lavoro che, persino per le donne dirigenti italiane, certificano tutt’altra situazione.
Il punto. Se metto insieme dati e dichiarazioni, mi viene da pensare che uscite come quella di Mennuni (ma non è certamente l’unica) siano gravi soprattutto per un aspetto: sono completamente sganciate da ogni dato di realtà. Al di là dell’anacronismo che rivelano – quello che riconduce la massima aspirazione di una persona a una specifica funzione – quella di fare figli, in questa caso – e non alla libera espressione di sé, che può contemplare il fare i figli come il non farne – il punto è proprio come si guarda al tema tanto in voga della natalità.
Esternazioni come queste, ancora una volta, non fanno altro che addossare la responsabilità del fatto che in Italia si facciano sempre meno bambini alle scelte dei singoli - le donne, nello specifico - invece che all’assetto del sistema sociale che oggi - certifica qualunque ricerca sul tema - rende fare figli o farne più di uno molto complicato, anche per coloro che li desiderano.
Il fertility gap. Non dimentichiamoci, infatti, che in Italia c’è chi i figli, legittimamente, non li fa perché non li vuole, ma sono molti di più quelli che non li fanno o non ne fanno quanti ne desidererebbero perché “non ce la fanno”, a mantenerli economicamente o dal punto di vista della cura e della conciliazione famiglia-lavoro. Si chiama fertility gap ed è la differenza tra i figli che si vorrebbero e quelli che poi effettivamente si fanno. In Italia un dato è quasi il doppio dell’altro - ed è una delle differenze più alte in Europa: facciamo, cioè, 1 figlio (in media 1,25, per la precisione), anche se ne vorremmo mediamente 2.
Insomma, se in tanti i figli li vogliono ma non li fanno perché troppo complicato e faticoso, se quando li fanno poi, a un certo punto, sono costretti (le donne, in larghissima parte) a lasciare il lavoro mentre, invece, è proprio se lavorassero di più e meglio che nascerebbero più bambini, allora diventa evidente che non si può ridurre tutto a una questione di “aspirazioni” personali: si tratta, ancora una volta, di strumenti, azioni, investimenti che non ci sono o, evidentemente, non bastano.
Sto leggendo
La genitorialità di Michela Murgia. Qualche giorno fa è uscito l’ultimo libro, postumo, di Michela Murgia: si intitola “Dare la vita” e parla di maternità e genitorialità. Negli ultimi anni, quella di Michela Murgia è stata una delle voci che più mi hanno aiutato a “orientarmi”. Quando, nel caos del dibattito pubblico sui più svariati temi, fatto di notizie o presunte tali, esternazioni scomposte, opinioni superficiali faticavo a vedere le cose in maniera lucida, in quelli di Murgia ritrovavo uno sguardo e un punto di vista che non solo condividevo, nella quasi totalità dei casi, ma che soprattutto mi aiutava a discernere, a distinguere chiaramente. E ad aggiungere un pezzetto alla mia idea di mondo. Da quando è mancata la scorsa estate, tante volte mi chiedo che cosa penserebbe e direbbe di fronte alle molte cose che continuano ad accadere - e ho realizzato quanto ci manchi la sua voce. Non è un caso che, in cima a queste righe, abbia deciso di mettere sempre quella frase sua che racchiude per intero l’idea che c’è dietro questa newsletter: “Non è vero che il mondo è brutto, dipende da quale mondo ti fai”. Ora è uscito questo libro, che Murgia ha scritto nelle ultime settimane di vita, con l’urgenza di chi sa di avere poco tempo, e che parla proprio di genitorialità. Lo sto leggendo, e avremo modo di parlarne nelle prossime settimane. Se lo stai leggendo anche tu, parliamone insieme.
L’età fragile. Intanto, durante le vacanze di Natale ho letto “L’età fragile”, di Donatella Di Pietrantonio. In passato non avevo letto gli altri romanzi di questa scrittrice abruzzese, che di primo lavoro fa la dentista pediatrica, nemmeno il più famoso, “L’Arminuta”. Forse, anche per questo, è stata una scoperta ancora più bella. “L’età fragile” parla di quei momenti nella vita nei quali ci spezziamo, per ricomporci poi in forme nuove. Capita a tutti, in età diverse, più volte nella vita, perché fragili lo siamo sempre. E parla molto, anche, di genitorialità, di lasciti familiari, radici e slanci verso il futuro. Ed è scritto con una lingua così asciutta e precisa da risultare profondissima.
“Non esiste un'età senza paura. Siamo fragili sempre, da genitori e da figli, quando bisogna ricostruire e quando non si sa nemmeno dove gettare le fondamenta. Ma c'è un momento preciso, quando ci buttiamo nel mondo, in cui siamo esposti e nudi, e il mondo non ci deve ferire. Per questo Lucia, che una notte di trent'anni fa si è salvata per un caso, adesso scruta con spavento il silenzio di sua figlia. Quella notte al Dente del Lupo c'erano tutti. I pastori dell'Appennino, i proprietari del campeggio, i cacciatori, i carabinieri. Tutti, tranne tre ragazze che non c'erano piú”.
Cose mie (utili)
Come scegliere la scuola. Queste sono le settimane nelle quali molte famiglie sono alle prese con la scelta della scuola e la relativa iscrizione, che va effettuata entro fine gennaio. Una decisione spesso non facile perché entrano in gioco molte variabili, di tipo educativo, pratico, logistico. Ne avevamo parlato, di questi tempi lo scorso anno, con Silvia Iaccarino di Percorsi Formativi 06 in una diretta sul profilo del magazine Giovani Genitori, che è sempre valida e contiene spunti di riflessione e indicazioni utili se si è ancora indecisi. Si può rivedere qui: “Come scegliere la scuola?”.
Stereotipi di genere, bambini e genitori. A proposito di interviste, domani (16 gennaio) ne faccio una in diretta alla quale tengo molto: con la pedagogista Alessia Dulbecco parleremo di “pedagogia di genere”. Proveremo a capire come i condizionamenti di genere agiscano, ancora oggi, sulle scelte educative dei genitori, con il rischio di limitare, sul lungo periodo, le possibilità, l’autostima e la libertà di bambine e bambini, futuri adulti, e di creare terreno fertile per discriminazioni e violenza di genere. Dulbecco ne parla in maniera molto approfondita nel suo libro “Si è sempre fatto così!”: una lettura interessantissima perché spiega dettagliatamente meccanismi e scelte educative che abbiamo introiettato, senza neanche accorgercene, e che possiamo cambiare. La diretta sarà alle 19 dal profilo IG di Giovani Genitori e rimarrà poi salvata.
Un posto bello da vedere
La Brianza che non ti aspetti. Nei primi giorni dell’anno, ho scoperto un posto meraviglioso, a una quarantina di minuti di macchina da Milano. È il Parco Regionale di Montevecchia e della Valle del Curone: un’area verde molto estesa e variegata per tipologia di paesaggi, incuneata nella Brianza, tra Milano, Bergamo, Lecco, Varese. È attraversata da 11 sentieri diversi, di varia lunghezza e difficoltà, tra boschi, terrazzamenti, strade bianche e cascine, molti dei quali facilmente percorribili anche dai bambini (io ero da sola e ho zigzagato tra percorsi diversi fino al piccolo borgo della Galbusera Bianca, nel cuore del Parco, da non perdere). Pur abitando non troppo distante, non lo conoscevo ed è stata una di quelle scoperte “dietro casa” delle quali fai fatica a capacitarti quando abiti in una delle zone più densamente urbanizzate d’Italia. La cosa che più mi ha colpito? Il silenzio. Gita consigliatissima!
E anche per questa settimana, è tutto. Grazie per aver iniziato l’anno insieme: ci risentiamo, come da programma, tra un paio di settimane. Intanto, se ti è piaciuta la newsletter e vuoi condividerla, puoi farlo da qui:
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“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che sembrano lontane tra loro e che, invece, hanno molto più a che fare l’una con l’altra di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin.