#10 Ci vuole un villaggio I Andiamo in biblioteca
Ovvero, in uno dei luoghi nei quali il villaggio si fa, anche se spesso ce lo dimentichiamo, ed è un peccato
Ciao!
Eccoci di nuovo qui. È arrivata la primavera, il prossimo fine settimana cambierà l’ora e sarà Pasqua. Sembra ieri che scrivevamo la letterina di Natale... come è potuto succedere? La cosa bella di questi giorni è che alle sei di sera guardi fuori dalla finestra o cammini per strada e c’è una luce che non ti aspetti: è una magia che a ogni marzo mi sorprende. Mi sembra un buon segno: non abituarsi mai alle cose belle, alla natura che cambia e fa il suo corso anche quando ci sentiamo persi nei casini di tutti i giorni.
Ma ora cominciamo: in questo numero voglio parlarti dei luoghi nei quali il villaggio si fa. Di uno, in modo particolare.
A proposito di luoghi
Ti ho già raccontato qualche newsletter fa che dallo scorso settembre partecipo a un book club organizzato da una biblioteca di zona e che la trovo un’esperienza molto bella. Qualche giorno fa c’è stato l’incontro di marzo. Il libro del mese era “Persone normali”, secondo romanzo acclamatissimo della scrittrice irlandese Sally Rooney. È stata una lettura che ha acceso il dibattito e spaccato il gruppo tra le persone più grandi di età (diciamo dai 55 anni in su), che dicevano di aver fatto fatica a entrare nella storia tormentata dei due protagonisti ventenni, e i più giovani, che invece ci hanno visto una rappresentazione perfetta della complessità propria delle relazioni della loro generazione. In mezzo, noi 40-45enni, ai quali il libro ha richiamato alla pancia qualcosa di conosciuto lasciandoci, però, una sensazione indefinita di incompiuto (io stessa non sono riuscita a farmi un’idea precisa di questo romanzo, del quale continua a sfuggirmi qualcosa, ma non so dire che cosa – ma questa è un’altra storia).
Mi ha colpito, durante il dibattito, l’intervento di una coppia che ha raccontato di non avere tante occasioni di incontro e confronto con ragazzi giovani e che, per questo, aveva trovato particolarmente interessante la lettura, tanto da aver voluto vedere anche la serie che ne è stata tratta e leggere un altro libro della stessa autrice: un’opportunità per affacciarsi su una realtà a loro poco familiare. È quello che fanno di solito i libri: spalancano finestre su vite che non sono la nostra - o che lo sono fortissimamente, seppur in maniera diversa –, su mondi che ci camminano a fianco e che, altrimenti, non avremmo mai la possibilità di esplorare.
Ho anche pensato, però, che senza l’occasione del book club, senza lo spazio fisico della biblioteca, quelle due ore di confronto tra esperienze e modi diversi di intendere le relazioni propri di generazioni che spesso fanno fatica a parlarsi e a capirsi - per il quale il romanzo di Rooney è stato solamente lo spunto di partenza - non sarebbero mai avvenute, che ciascuno di noi avrebbe forse incontrato un giorno la storia di Marianne e Connell per conto proprio, ma in un modo molto diverso da come è accaduto.
La biblioteca che fa comunità. Giusto qualche settimana prima avevo intercettato una serie di articoli del magazine “Percorsi di Secondo Welfare” dedicati proprio al mondo delle biblioteche. Raccontano come all’estero, ma anche in Italia, il ruolo di questi spazi sia molto cambiato: da luoghi un po’ polverosi nei quali prendere in prestito libri e magari fermarsi a studiare a, sempre più, presidi sociali. Luoghi nei quali si “fanno cose”: attività per bambini e famiglie, spettacoli, concerti, dibattiti, corsi di maglia e digitalizzazione, incontri sul benessere, book club e iniziative dedicate ai più giovani e alle scuole. È il modello di “biblioteca sociale”, che gli addetti ai lavori hanno già iniziato a studiare a partire dalle tante esperienze che si stanno moltiplicando sul territorio, spesso sollecitate dal basso, ovvero dai cittadini-utenti, e sostenute dal lavoro di operatori volenterosi.
Tempo fa parlavo con una persona che in una di queste biblioteche ci lavora e mi diceva che non è facile, non solo perché spesso mancano i fondi e la burocrazia fa passare la fantasia anche ai bibliotecari più attenti. Non si tratta solamente di organizzare un incontro, stampare una locandina, invitare un autore a presentare il proprio libro. La cosa più difficile è costruire la relazione, fare in modo che le persone inizino a vedere la biblioteca di zona come un luogo della comunità - del villaggio, mi piace dire - da poter frequentare sempre, anche solo per sedersi a sfogliare una rivista o fare quattro chiacchiere (sottovoce) con qualcuno.
In un articolo uscito un paio di anni fa su l’Essenziale, l’allora presidente dell’Associazione Italiane Biblioteche Rosa Maiello sottolineava, giustamente, come “le biblioteche sono tra i pochi luoghi rimasti dove nessuno spinge a comprare qualcosa o a professare un credo”. A pensarci bene, è un valore sociale e culturale immenso, dato per scontato.
Non tutte le biblioteche sono uguali. Io mi reputo fortunata, la mia biblioteca - e molte di quelle vicine - sono un esempio più che virtuoso: gli spazi sono belli e piacevoli, le attività proposte varie e per fasce di età diverse e davvero i libri rappresentano il tramite attraverso il quale ruota un pezzo importante della vita sociale della città. Dove abitavo fino a pochi anni fa, c’era addirittura una biblioteca dedicata solo ai bambini e ai ragazzi - oggi, purtroppo, è stata smantellata, a proposito di mancanza di fondi - ed è stato quello, fino alla pandemia, il “nostro” luogo della città, mio e di mia figlia, quello in cui andavamo anche solo un’oretta nel fine settimana o dopo la scuola per sfogliare i “librini”, incontrarsi e giocare con gli amichetti, sentir leggere una storia.
Ma ho scoperto che l’Italia è diversa, e spaccata, anche quando si parla di biblioteche. Sempre lo stesso articolo di l’Essenziale riportava un po’ di dati Istat, aggiornati al 2020: in Italia le biblioteche sono davvero tante (7.459), molte di più di musei, siti archeologici e monumentali messi insieme (4.200). In due Comuni italiani su tre è presente una biblioteca, la maggior parte sono di pubblica lettura - quelle cioè che frequentiamo abitualmente noi, non quelle di conservazione come le grandi biblioteche nazionali. Peccato che il 40% dei Comuni nei quali una biblioteca non c’è sia concentrato al Sud: “Gli italiani che nel loro paese o nella loro città non hanno una biblioteca sono 7,5 milioni, il 60% dei quali vive al Sud. Appesantisce il quadro un altro fattore - spiegava l’articolo - nel 41% dei Comuni senza biblioteche non si trova altro, né una libreria né un museo e in questi luoghi non è stato proiettato un film, non è stato allestito uno spettacolo teatrale o musicale”. A dire quanto le biblioteche possano fare da catalizzatore di iniziative ed essere motore di qualcosa che parte dai libri e va oltre, buono anche per chi magari non legge un libro da anni. Intanto, però, la frequenza rimane molto bassa: secondo l’Istat nel 2022 le persone che, dai 6 anni in su, sono andate almeno una volta nel corso dell’anno in biblioteca o si sono collegate al suo sito web sono state il 13,5% della popolazione. Che peccato.
Un progetto bello. Tra i tanti progetti rivolti a bambini e famiglie che le biblioteche italiane promuovono e per i quali rappresentano il presidio territoriale di riferimento c’è soprattutto Nati per leggere, per la diffusione della lettura tra i più piccoli. Ce n’è, però, anche un altro che ho sempre trovato molto bello e del quale mi sono ricordata scrivendo, nel numero scorso, dell’articolo di Franco Lorenzoni sul tema della valorizzazione delle lingue madri a scuola (puoi recuperarlo qui). Si tratta di Mamma Lingua. Storie per tutti, nessuno escluso promosso alcuni anni fa proprio dall’Associazione Italiane delle Biblioteche. È rivolto alle famiglie con bambini 0-6 anni delle più numerose comunità straniere presenti in Italia e ha l’obiettivo “di promuovere la consapevolezza dell’importanza della lettura condivisa in famiglia in lingua madre, della narrazione e della diversità linguistica, tramite la diffusione dei libri per bambini in età prescolare nelle lingue maggiormente parlate nel nostro Paese”, spiegano sul sito del progetto.
In pratica, nel corso degli anni è stata creata una bibliografia con oltre 100 titoli di libri per bambini in sette lingue (albanese, arabo, cinese, francese, inglese, rumeno, spagnolo) più un elenco di “classici” internazionali, dalla quale le biblioteche di zona possono attingere per inserirli nel proprio catalogo; sono stati creati dei presidi territoriali in ogni regione per la diffusione del progetto, dotati della “valigia di Mamma Lingua” con tutti i volumi selezionati e, qualche anno fa, fu fatta anche una bellissima mostra itinerante dedicata alla narrativa per l’infanzia straniera. Nel Manifesto si spiega il senso dell’iniziativa, il perché dell’importanza della valorizzazione delle lingue madri e il ruolo di “ponte” che le storie possono giocare tra la lingua madre e quella del Paese nel quale si vive, anche nel favorire l’apprendimento di quest’ultima:
“Il fatto che nella biblioteca pubblica – luogo valorizzato e riconosciuto – siano presenti libri nella propria lingua madre dà ai bambini figli di immigrati un messaggio immediato di valorizzazione del codice materno, spesso ignorato o svalorizzato, e della propria appartenenza, in generale. Nello stesso tempo – si legge a proposito del ruolo svolto dalle biblioteche – questa presenza trasmette a tutti i bambini e genitori autoctoni il messaggio simbolico e importante che ogni lingua e cultura hanno valore”. Alla base, l’idea fondante che “tutti i bambini hanno bisogno di storie per immaginare e per ricordare; storie da ascoltare e narrare; storie da condividere e custodire nel tempo. Le storie diventano casa e rifugio da abitare; diventano àncora e zattera ai quali appoggiarsi; sassolini e briciole per ritrovare il cammino. La narrazione e l’ascolto di storie hanno un ruolo centrale nella crescita e nello sviluppo – affettivo, cognitivo e linguistico – di tutti i bambini. Nessuno escluso”.
Un progetto che funziona così così, ma noi ci crediamo lo stesso. Per chiudere il discorso sulle biblioteche, ti racconto una cosa che abbiamo fatto qui a casa: una piccola “biblioteca di condominio” per bambini. L’estate scorsa con mia figlia abbiamo riempito una cassetta con alcuni dei suoi libri e l’abbiamo lasciata nello spazio comune esterno del condominio: l’idea è che tutti i bambini del palazzo possano attingervi per scambiarsi libri e riviste. Diciamo che lo scambio in questi mesi ha funzionato un po’ così e così, ma per ora abbiamo deciso che la scatola rimane lì, al suo posto. A un certo punto, un vicino ci ha messo di fianco una panchina: un piccolo angolo lettura che prima non c’era e adesso c’è.
[Spoiler: le “mie” biblioteche, quelle di cui parlo, sono Tilane, a Paderno Dugnano, e quella di Cormano, entrambe a Nord di Milano: se abitate in zona, venite a fare un giro, magari ci vediamo lì.]
Cose da leggere e da vedere
Coi suggerimenti rimaniamo, per questo numero, in tema “parole e storie”.
Meglio imparare a scrivere a penna o sul tablet? Tempo fa mi ero salvata questo lungo articolo di Tiziana Metitieri su Valigia Blu: “Scuola, ma davvero con carta e penna si impara di più?”, finalmente sono riuscita a leggerlo con calma e te lo consiglio. Parla del dibattito che, sull’onda della pubblicazione di questo o quello studio, spesso si riaccende su quale sia la forma di scrittura “migliore” e del presunto danno che il digitale starebbe arrecando alla capacità di bambini e ragazzi di imparare a esprimersi in forma scritta in maniera articolata, complessa e corretta grammaticalmente e sintatticamente. L’ho trovato molto interessante perché analizza la questione da diversi punti di vista, anche storici: su “La Stampa” del 1958, per esempio, si scriveva – racconta l’articolo – che “l’impiego della penna a sfera ha standardizzato la scrittura, l'ha spersonalizzata, spogliandola d’ogni peculiare caratteristica individuale, sia d’ordine psicologico che materiale; ha reso il segno grafico uniforme neutro incolore”. Ti dice niente? Assomiglia molto a quello che potremmo dire oggi rispetto alla digitazione compulsiva di messaggi ed emoticons – a proposito di come cambia la percezione rispetto alle “novità” man mano che esse entrano a fare parte dell’esperienza e dell’uso comune. Il punto è che, emerge bene dall’articolo, la questione è molto più complessa. Il problema non è tanto il digitale in sé quanto il fatto che anche l’apprendimento della scrittura digitale, come di quella “a mano”, richiederebbe tempo e progetti educativi specifici mentre, in gran parte, è ancora “una questione individuale, condizionata dal contesto sociale e culturale in cui si cresce. La prima alfabetizzazione integrata a scuola garantirebbe invece – conclude Metitieri – equità di accesso agli strumenti e a un loro uso costruttivo e critico”. In effetti, pensavo leggendo, forse più che difendere a spada tratta la penna mentre i bambini di oggi imparano a usare un iPad meglio di noi già da molto piccoli, avrebbe senso accompagnarli nell’imparare a “scrivere bene”, anche in digitale. Difendere acriticamente ciò che è stato, in fondo, è sempre più facile che provare a costruire guardando al futuro.
Un film da vedere. Negli ultimi mesi sono usciti tanti film molto belli come non accadeva da tempo, segnala la critica cinematografica. Io sono molto indietro nella visione, ma uno di quelli da Oscar l’ho recuperato nei giorni scorsi: è “American Fiction”, che è stato premiato per la miglior sceneggiatura non originale. Per chi scrive o ha a che fare tutti i giorni con le parole apre a molte riflessioni sul senso della scrittura e delle storie, sul loro valore di rispecchiamento e di costruzione di letture altre della realtà, su quali siano i confini del politicamente corretto. Al di là di questo, però, c’è nella vicenda del protagonista, lo scrittore Thelonious “Monk” Ellison, un aspetto con il quale, riflettevo, forse non basta una vita per finire di farci i conti, anche quando non si scrive per lavoro: il rapporto con la propria, di storia, quella personale e familiare che ciascuno si porta dietro nel bene e nel male, nella quale continuiamo a rispecchiarci in modo più o meno consapevole e rispetto alla quale sta solo a noi decidere se scrivere o meno una storia nuova, altra, diversa.
E con questo bel film, che ti consiglio di vedere, ci salutiamo 🧡 Realizzo solamente ora, mentre rileggo per l’ultima volta la newsletter, che questo è il numero 10: è bello essere arrivati alla prima cifra tonda.
I prossimi per me saranno giorni, anche, di vacanza. Ti auguro di staccare e riposare un pochino, ce lo meritiamo 🧡 Poi ci rivediamo qui, tra due settimane!
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“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che sembrano lontane tra loro e che, invece, hanno molto più a che fare l’una con l’altra di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin.