#9 Ci vuole un villaggio I Siamo (genitori) più fragili o più consapevoli?
Pensieri a ruota libera sull'ansia da prestazione genitoriale e alcune cose che ho scoperto sul tema natalità
Ciao!
Come va? Io inizio a scrivere questo numero della newsletter con qualche giorno d’anticipo rispetto a quando tu lo leggerai. Sono su un treno, di ritorno da Napoli. Sono stata lì per lavoro e poi mi sono fermata un paio di giorni per un fine settimana in solitaria. Viaggiare da soli non è sempre facile, espone di più agli imprevisti e alla malinconia, ma Napoli è una di quelle città capaci di distrarti, all’improvviso, anche dai pensieri più attorcigliati e, mescolandoli alla confusione dei vicoli, con il vento che tira forte sul mare, farteli ritrovare in ordine.
Però, un dubbio mi è rimasto. E questa settimana partiamo da qui, in maniera un po’ filosofica e a ruota libera.
Siamo più fragili o più consapevoli?
Sono partita per Napoli con questa domanda per la testa, sorta dopo una chiacchierata con un’amica sulle forme della genitorialità: scelta, capitata, non voluta, vissuta come destino sociale oppure no.
Il dubbio. Nel tempo, mi sono fatta un’idea: siamo genitori fragili. Uno dei motivi principali è, neanche a dirlo, l’indebolimento del famoso “villaggio” di cui parliamo qui: poco welfare, poca rete sociale, poche occasioni di confronto. Un po’ spaesati, siamo genitori-isole: ci proviamo, in solitaria, attanagliati spesso da un dubbio che ci perseguita: starò facendo la cosa giusta, la migliore possibile? E che si tratti di svezzamento, nanna, scelta della scuola o crisi adolescenziali, poco cambia.
Ben intesto, domandarsi se si stia facendo bene è cosa più che sana, ma a volte mi chiedo: e se fosse troppo? Come si fa a essere genitori cercando di fare del proprio meglio senza che il meglio diventi di per sé l’obiettivo? Per dirla con una parola che inizia a essere abusata: senza farsi mangiare dalla “performatività”? Imparando ad accettare, senza troppi sensi di colpa, quel margine di errore che l’essere genitori, in quanto vicenda umana, necessariamente porta con sé?
È soprattutto una questione di fragilità, anche delle reti che dovrebbero sostenere la genitorialità come vissuto sociale e che, invece, sfilacciandosi, col tempo hanno scaricato sulla coppia di genitori una responsabilità che, se condivisa, peserebbe certamente meno? O è anche - come giustamente mi ha ricordato l’amica con cui ne parlavo - che lì dove aumentano consapevolezza e strumenti culturali - intesi nell’accezione più lata del termine, come mezzi in grado di aiutarci a interpretare la complessità della realtà nella quale viviamo - si moltiplicano necessariamente anche i dubbi e, di conseguenza, la ricerca di risposte? Banalizzando: ne sappiamo di più e ci facciamo problemi che generazioni precedenti, sapendone di meno, non si facevano?
Forse, una e l’altra cosa insieme. Mi ricordo di aver letto nel libro di Annalisa Monfreda (che già ti ho consigliato) “Ho scritto questo libro invece di divorziare” una spiegazione alla performatività genitoriale che attanaglia molti di noi, sociale e insieme storica, chiarissima (riferita in questo caso alla maternità):
“Siamo finite senza accorgercene sotto il ricatto del desiderio. È come se l’aver legittimato il diritto di scegliere se fare o meno un figlio, la possibilità di desiderarlo ma anche no, abbia appesantito il carico della genitorialità. Nessuno ci ha costretto a diventare madri, ma ora che lo siamo diventate, il figlio deve essere il centro del nostro mondo”.
Scrive ancora Monfreda, citando la filosofa Elisabeth Badinter:
“Non c'è più forse l’obbligo sociale di essere una madre, e questo è un bene. Ma è sostituito da quello di essere una ‘buona madre’”.
Ovvero, è come se, nel momento in cui diventare madri (genitori, perché il discorso vale, con risvolti diversi, anche per i padri) ha smesso di essere un destino ed è diventata una scelta, avessimo iniziato a voler svolgere questo ruolo, a tutti i costi, al meglio di cui siamo capaci.
Il meglio, questo sconosciuto. Però, l’inghippo è tutto qui: quel meglio, cos’è? Chi decide cosa sia? Quali sono i parametri che ci rendono il “miglior genitore possibile”? E perché dovrebbe valere per me quello che è il meglio per un altro? Questo discorso non funziona mai nella vita, perché dovrebbe farlo rispetto all’essere genitori? E, allora, seguendo il filo del discorso: se puntiamo al meglio, ma quel meglio ha contorni indefiniti, noi, esattamente, cos’è che stiamo inseguendo? E i nostri bambini, in tutto questo discorso, dove sono?
E quindi? Troppe domande, lo so. E di risposte non ne ho molte. Personalmente, però, penso che la conoscenza rappresenti sempre un bene. Mi è capitato, in più snodi complicati della mia esperienza genitoriale, di avvalermi di un supporto psicologico e pedagogico: sono stati aiuti preziosi, che mi hanno permesso di mettere a fuoco meglio le questioni, di ricevere un sostegno quando il terreno sotto i piedi sembrava venir meno, di rinvenire risorse che non pensavo di avere. Il buon senso - di cui pure credo di essere dotata - e “l’istinto materno”, in quei frangenti, sentivo non sarebbero bastati. I professionisti (quelli veri, non i sedicenti tali, eh) sono una risorsa della genitorialità di oggi. Io dico: usiamoli.
Un approccio più leggero. Poi, però, dico anche un’altra cosa. E la dico con una battuta - parecchio cinica - scappata a un’altra amica qualche tempo fa: “Senti - mi disse mentre ci arrovellavamo intorno a non so più neanche quale questione da mamme -, noi facciamo del nostro meglio. Poi, alla peggio, vorrà dire che loro (le nostre figlie) si pagheranno la psicologa come ce la siamo pagata noi da adulte!”. Che non è un modo per deresponsabilizzarsi, ma per abbassare l’asticella del “rendimento” e provare ad avere un approccio più leggero.
Da questo punto di vista, molto si sta muovendo. Mai come in questo periodo il dibattito pubblico, soprattutto sulle forme della maternità, è aperto e in tanti modi si sta provando a decostruire modelli di genitorialità dati per assodati a favore di narrazioni non solo più aderenti ai tempi nei quali viviamo, ma anche più rispettose e legittimanti del sentire di ciascuno. Ecco, credo questa sia un’altra delle strade migliori che possiamo percorrere oggi per smontare insieme l’ansia da prestazione. Tornando alla domanda iniziale: per imparare ad accettare la nostra fragilità, con consapevolezza.
Cose che ho scoperto sulla questione natalità
Dopo un’introduzione forse un po’ amletica, torniamo sul concreto. Nelle ultime settimane, ho letto per lavoro un libro: si intitola “Pianeta vuoto. Siamo troppi o troppo pochi?” ed è stato scritto nel 2020 da due analisti canadesi, Darrell Bricker e John Ibbitson, che ricostruiscono la storia degli andamenti demografici globali del passato gettando un occhio al futuro da una prospettiva di sostenibilità diversa da quella alla quale siamo abituati. Ovvero: oggi siamo tanti su questa Terra, sicuramente troppi rispetto alle risorse disponibili e a fronte dei disequilibri sociali che conosciamo, ma dalla fine di questo secolo - dicono le proiezioni - la popolazione mondiale inizierà a calare - in Europa, Italia in testa, sta già succedendo -, e non è detto che si tratti di una notizia migliore. Chi ci sarà allora si troverà a fare i conti con uno scenario sociale, economico, ambientale, culturale molto diverso da quello attuale, che Bricker e Ibbitson provano a descrivere. Paradossalmente, potremmo diventare “troppo pochi”. Sull’analisi che fanno i due studiosi canadesi, ti rimando al libro e al lungo articolo di approfondimento che ho scritto per il numero di marzo di Vegolosi MAG (lo puoi trovare qui). C’è, però, una cosa, tra le tante che ho scoperto facendo questo lavoro, che voglio raccontarti in breve perché credo che possa essere utile a inquadrare meglio tutto il dibattito sulla natalità così in voga in Italia in questo periodo.
Ovvero. Tutte le misure che possono essere messe in campo per sostenere la natalità e di cui tanto parliamo anche noi – congedi parentali prolungati, bonus economici, disponibilità di asili nido e iniziative di sostegno alla cogenitorialità e alla condivisione dei carichi di cura – sono importanti e possono avere un impatto nell’incentivare le persone a fare più figli, ma solo fino a un certo punto. Uno dei motivi è semplice: sono iniziative pubbliche molto costose e difficili da mantenere, soprattutto nelle fasi storiche caratterizzate da incertezza economica (ti ricorda qualcosa?), un fattore che ha sempre rappresentato nella storia un potente mezzo di “controllo delle nascite”.
Ma non è solamente una questione economica, di disponibilità, cioè, di risorse pubbliche per fare asili nido e prolungare i congedi parentali, per esempio. La faccenda è più complessa. Da questo punto di vista, è emblematico il caso dei Paesi del Nord Europa, che tanto ammiriamo per le loro politiche avanzate a sostegno della genitorialità. Anche qui, però, il tasso di fecondità - ovvero il numero dei figli per donna - seppur alto (1,8 in Finlandia) ha iniziato a scendere ed è comunque al di sotto di quel 2,1 indicato dai demografi come tasso di sostituzione, il numero necessario, cioè, perché la popolazione continui a crescere invece di diminuire (si calcolano poco più di due figli per donna, in “sostituzione” dei due genitori che li hanno generati e dei quali prenderanno il posto). Per intenderci, in Italia il tasso di fecondità è tra i più bassi d’Europa, pari a 1,24.
Ciò che sta accadendo in Nord Europa, ma anche in Francia, il Paese europeo storicamente con il tasso di fecondità più alto, anche qui oggi in discesa, dimostra che il punto è anche - forse, soprattutto - di assetto sociale. E ha a che fare con i cambiamenti che negli ultimi decenni, in società come quella europea, hanno portato a considerare l’avere figli non più come un obbligo sociale da assolvere, ma come una questione strettamente personale, che mette legittimamente sullo stesso piano la possibilità di farli, i figli, come quella di non farli. C’è che le nostre vite, nelle società cosiddette avanzate (e sempre più vecchie), si sono settate su un modello che porta a vagliare l’ipotesi di fare un figlio sempre più tardi, anagraficamente parlando, riducendo, di fatto, la finestra temporale che permette di procreare dal punto di vista strettamente biologico. Lo spiega benissimo una demografa, non a caso finlandese, in questo video di Arte che mette a confronto la situazione demografica in diversi Paesi.
Una riflessione. Tutto chiaro e, in parte, ampiamente risaputo. Mentre leggevo la descrizione di come sarà il futuro in un “mondo più piccolo” fatta dai due canadesi, mentre scrivevo il mio “pezzone”, come lo chiamo io, per Vegolosi MAG e anche adesso che sto riprendendo qui il tema, c’è però qualcosa che continua a non tornarmi e che faccio fatica a mettere bene a fuoco. Credo che abbia a che fare con il significato a monte di tutto il discorso e con i toni paternalisti che il dibattito sulla natalità ha assunto qui da noi negli ultimi mesi. Ci provo: ma perché dovremmo sostenere a tutti i costi la natalità? Perché abbiamo iniziato a capire che il sistema socio-economico potrebbe collassare se ci saranno meno giovani a consumare e a pagare le pensioni, con il loro lavoro, a una schiera sempre più numerosa e più anziana di pensionati? Perché, con sempre meno e meno numerose giovani famiglie il mercato immobiliare inizierà a stagnare? Perché con una popolazione fatta più di anziani che di bambini avremo bisogno di molti più medici e infermieri e di molti meno insegnanti?
Forse, da questo punto si vista - esattamente come avviene per il tema della crisi climatica - dovremmo iniziare a ragionare in un’ottica di “adattamento demografico” (non so se l’espressione sia contemplata in demografia) cominciando, già ora, a ripensare i nostri modelli di vita, di lavoro e di consumo invece che aspettare che gli effetti negativi del cambiamento demografico ci cadano addosso uno dopo l’altro.
Ho, tuttavia, l’impressione che il nodo sia anche un altro e che abbia a che fare con l’essere genitori oggi più che con quello che accadrà domani. Ho già parlato qui del fertility gap, la differenza cioè tra i figli che si fanno e quelli che si vorrebbero e che in Italia è molto alto, e della “troppa fatica” indicata dalle mamme come motivazione principale per il non volere altri figli oltre a quelli che già hanno (mediamente 1, come abbiamo visto). Per questo, credo che le misure di sostegno alla natalità abbiano senso non tanto per dare un qualche generico “contributo al Paese”, come si cerca di far passare oggi, o per metterci al riparo dai possibili effetti negativi futuri del calo e dell’invecchiamento demografico. Hanno senso - e possono funzionare - prima di tutto nella misura in cui creano le condizioni perché le persone possano scegliere liberamente se e come fare figli, e quanti farne. Se la scelta, e quindi poi la possibilità, di avere figli è condizionata a monte da vincoli di contesto sociale - l’organizzazione del lavoro, il welfare state che manca, i disequilibri di genere nella gestione dei carichi di cura, il gender pay gap, le difficoltà di accesso alla casa, per esempio - smette di essere una scelta e torna a essere un destino. Una volta era quello di fare i figli, adesso rischia di diventare quello di non farli, anche se li si desidera.
Una cosa da leggere e una buona notizia
Per chiudere questo numero, che sta già diventando molto lungo, vado rapida con due segnalazioni di cose interessanti.
La ricchezza delle lingue. La scorsa settimana si è discusso molto della proposta, poi in parte ritrattata, del Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara di istituire delle sorti di “classi differenziali” o “di transizione” per i bambini stranieri con difficoltà linguistiche con l’italiano. Senza entrare nel merito della questione - il solito polverone intorno ad annunci buttati lì che poi chissà che fine fanno - il tema mi ha ricordato un bellissimo articolo uscito su Internazionale giusto qualche giorno prima. Lo ha scritto Franco Lorenzoni e parla dell’importanza del dare dignità a scuola alle lingue madri. È interessante perché spiega, con esempi concreti, come le lingue portino dietro mondi e in che modo costituiscano “ponti indispensabili per una comprensione reciproca più aperta e profonda” - e anche perché ricorda che esistono linee di indirizzo ministeriali specifiche sulla valorizzazione a scuola delle lingue madri. Ti consiglio davvero di leggerlo: il modo in cui i bambini spiegano cosa hanno nella testa e nel cuore a partire dalle parole è emozionante.
Una buona notizia. È qualche settimana che mi sono accorta che le mie caselle di posta del lavoro hanno iniziato a riempirsi di comunicati stampa di aziende che raccontano di aver lanciato iniziative di welfare a sostegno dei genitori. Anche Linkedin continua a propormi news di questo genere. Ora, non so se sia perché ci faccio più caso io, se sia solamente questione di algoritmo oppure se è il segnale che qualcosa si sta muovendo. Mi piace pensare che sia giusta la terza ipotesi. L’ultima notizia in tal senso viene da Alpitour, che è il più grande gruppo turistico italiano e che ha appena firmato coi sindacati un nuovo contratto integrativo aziendale che prevede, tra le altre cose, un’estensione del congedo parentale, anche per l’inserimento al nido e alla materna e in caso di malattia dei bambini, e dell’aspettativa per le adozioni e gli affidamenti internazionali, usufruibili anche dalle coppie di genere. Bene così.
Che aggiungere? Grazie per aver letto fino a qui anche questo numero 🧡
In questi giorni si sono iscritte alla newsletter un po’ di persone: grazie anche a voi per la fiducia e, soprattutto, benvenute e benvenuti 🧡
In questo numero ho come l’impressione di essermi fatta un po’ tirare da pensieri e riflessioni in libertà più che da fatti e da storie. Ogni tanto ci sta e può essere un’occasione per riflettere insieme quindi… scrivimi, se ti va. Mi farebbe davvero piacere.
Ci sentiamo tra due settimane!
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“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che sembrano lontane tra loro e che, invece, hanno molto più a che fare l’una con l’altra di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin.