#13 Ci vuole un villaggio | Mamma libera tutti!
Tre parole (racconto, lavoro, diritti) + una (rivoluzione) per parlare di maternità
Ciao!
Anche se questa primavera meteorologicamente stenta a decollare, almeno a Milano e dintorni, sono i primi di maggio e domenica prossima è la festa della mamma. E, allora, in questo numero, parliamo di mamme.
Lo faccio mettendo insieme un po’ di spunti, idee e numeri che ho raccolto nel tempo e sui quali sono tornata a riflettere negli ultimi giorni sollecitata da alcune letture e dalle cose interessanti che ho ascoltato partecipando a “Ensamble”, il festival della genitorialità #nofilter che si è tenuto lo scorso fine settimana a Milano nel quale si è parlato di cura, lavoro, stereotipi e violenza di genere, narrazioni e, ovviamente, di mamme.
Prima, un appuntamento
Il titolo di questa newsletter, però, è preso da un altro appuntamento, al quale tengo molto: una diretta Instagram in programma per domani (martedì 7 maggio), alle 13.30, con Silvia Iaccarino di Percorsi Formativi 0-6 dedicata proprio alla maternità. Parleremo del “mito della buona mamma”, del perché ancora oggi è così difficile parlare dei sentimenti ambivalenti, e non sempre positivi, che caratterizzano l’esperienza della maternità e del legame che c’è tra la rappresentazione socialmente condivisa della “buona madre” e la salute mentale delle mamme. Di fatiche, aspettative, modelli: insomma di tutte quelle cose sulla maternità che non diciamo mai abbastanza (la diretta sarà dal profilo di @GiovaniGenitori e rimarrà salvata, se vorrai recuperarla anche successivamente).
È un discorso che iniziamo insieme qui, ragionando sulla maternità intorno a tre parole (racconto, lavoro, diritti) + una (rivoluzione). Partiamo!
Racconto
Nei giorni scorsi leggevo “I panni sporchi NON si lavano in casa. Raccontiamo la depressione post-partum”, il bel numero della newsletter “Rompere le uova” della giornalista Ilaria Maria Dondi dedicato al tema della salute mentale materna, che si celebra ogni anno il primo mercoledì di maggio (ti consiglio di leggerlo per intero). Dondi invita a contare: “Circa l’85% delle neo-mamme, dopo il parto, sperimenta una forma leggera di depressione ansiosa conosciuta come maternity blues. 1 neo-mamma su 5 - cioè 2 ogni 10 - può sviluppare una condizione più grave, che va sotto il nome di depressione post partum”. Sono numeri alti, eppure gran parte della narrazione che ruota intorno alla maternità, ancora oggi, questi numeri - che sono storie, pezzi di vita di donne e dei loro bambini - li omette. Citando un passo del suo libro “Libere di scegliere se e come avere figli” Dondi spiega benissimo il perché: l’ambivalenza dell’esperienza di maternità, soprattutto di quella dei primi mesi - il fatto che diventare madri possa essere una cosa bellissima e insieme terribile - è ancora un grandissimo tabù, forse il più grande - e il più pericoloso - di quelli sulla maternità.
Il racconto, toccante e prezioso, che la giornalista fa del primo incontro con suo figlio e dei mesi difficili che sono seguiti mi ha ricordato un pezzo scritto diversi anni fa per Giovani Genitori, al quale sono molto affezionata perché è uno di quelli che ha dato inizio a una serie di riflessioni sulla genitorialità che hanno portato fino a qui, anche a questa newsletter. Si intitola “E se non è amore a prima vista?” e racconta le storie di mamme che immaginavano che alla nascita dei loro bambini avrebbero sentito “il cuore spaccarsi a metà per l’emozione” e invece - cito una di loro - quel che hanno provato è stato “uno spaventoso vuoto”. Il punto è che, quel vuoto, ancora adesso è cosa che non si può dire perché va contro la visione edulcorata - l’unica socialmente accettabile - di una maternità fatta solo di profumo di latte e coccole.
Una maternità che pure esiste, ma che convive con la stanchezza, gli sbalzi ormonali, il sonno che manca, il dolore delle ragadi al seno. Che, soprattutto, va di pari passo con la tua identità che va in mille pezzi ed è tutta da ricostruire, con la paura di non essere all’altezza, con le aspettative tue e degli altri sulla madre che vorrai essere, con gli equilibri di coppia e familiari da rimettere in bolla. Con lo sguardo di un bambino che puoi anche avere atteso per tutta la vita, eppure improvvisamente non riconoscere. Con l’idea inattesa che l’amore per un figlio procede più per costruzione e conoscenza che per istinto e che non basta partorire per diventare madre.
Avevo scritto quell’articolo lanciando un post in un gruppo Facebook di mamme di cui facevo parte ai tempi chiedendo se qualcuno volesse condividere la sua esperienza. Mi ricordo che mi arrivarono decine di lunghissime testimonianze. Perché è una storia comune, che tutte conoscono, ma non si racconta. E, invece, come scrive Dondi, è tempo che “i panni sporchi non si lavino più in casa”.
Lavoro
Nei prossimi giorni uscirà il report 2024 di Save the Children “Le equilibriste”, che ogni anno scatta la fotografia più accurata su come stanno le mamme in Italia (spoiler: non benissimo). In attesa dei nuovi dati, ci sono quelli dello scorso anno, che abbiamo citato qui già altre volte, che dicono soprattutto di stanchezza e di un bisogno fortissimo di politiche e servizi di conciliazione famiglia-lavoro. Perché il lavoro è l’elefante nella stanza di qualsiasi discorso sulla genitorialità e, in modo particolare, sulla maternità.
Se leggi questa newsletter da un po’, sai come la penso: di genitorialità possibile e sostenibile possiamo parlare solo ripensando il modo in cui lavoriamo tutti - un discorso che ha a che fare con i tempi, gli spazi, la parità retributiva, il senso che al lavoro diamo come collettività, prima ancora che come singoli.
Al festival “Ensamble” se ne è discusso molto, in diversi incontri, nei quali ci si è interrogati anche su cosa possano fare le aziende. La risposta è: moltissimo. Congedi di paternità estesi e obbligatori, servizi di sostegno psicologico e counseling per i genitori, incentivi economici, politiche di raccordo per facilitare il rientro al lavoro dopo la maternità, flessibilità oraria. È la direzione che tante aziende raccontano di aver intrapreso nell’ultimo periodo investendo in welfare, iniziative e servizi a sostegno dei lavoratori-genitori - ne abbiamo parlato qui qualche tempo fa - ed è un’ottima notizia. Mentre ascoltavo, due sono le cose che mi hanno colpito e sulle quali mi sono fermata a riflettere.
La prima l’ha sottolineata Greta Nicolini, responsabile comunicazione di We World Onlus: la maternità, ancora oggi, è vista come un problema nel mondo del lavoro perché del lavoro continuiamo ad avere una visione lineare. Diventare madri rappresenta uno stop lungo una linea retta e dritta, che punta all’obiettivo e alla performance, dopo il quale può essere difficile rientrare in carreggiata. Ma nella pratica non è affatto così: il percorso lavorativo di ciascuno, che sia o meno madre o genitore, non è mai dritto: ci sono curve e stop, accelerazioni, franate e ripartenze dal via. Ci sono, soprattutto, le cose della vita che quel percorso lo condizionano e che non sono solamente i figli, ma anche le malattie, il doversi prendersi cura di genitori anziani, il desiderio legittimo di dedicare parte della propria vita a passioni e interessi che non sono “lavoro”, solo per fare qualche esempio. Ecco perché il sostegno alle madri non riguarda solamente loro: un ambiente di lavoro che sa vedere e considerare i bisogni delle mamme diventa “un posto più accettabile e autentico per tutti”, anche per chi madre e genitore non è. Perché comporta un cambiamento di cultura del lavoro che va a vantaggio di tutti.
La seconda è un’osservazione che nasce dalle parole di Sonia Malaspina, per molti anni a capo delle risorse umane di Danone e oggi direttrice delle relazioni istituzionali, che sul tema ha scritto un libro prezioso per chi si occupa di lavoro ed HR, “Il congedo originale”, ed è fautrice di una delle prime policy aziendali italiane in tema di sostegno alla maternità, che negli anni ha fatto scuola. Malaspina ha sottolineato come scegliere di supportare le donne che diventano madri sia per le aziende una questione di cultura aziendale: è una scelta imprenditoriale, che comporta più visione strategica che grossi investimenti economici, e che ha un impatto importante in termini di produttività (se al lavoro stai bene, lavori meglio, produci di più: osservazione lapalissiana). “Gli ad delle aziende guardano i numeri, il business: devi fargli capire che investire sulle donne, sostenere chi fa figli, conviene”, ha osservato giustamente Malaspina. La competitività come grimaldello per introdurre una cultura del lavoro più a misura di mamme (ancora, di genitori). E va benissimo, purché le cose si facciano.
L’unico timore che ho, davanti al moltiplicarsi dell’ultimo periodo di annunci delle aziende a proposito di misure pro-genitori, è che la genitorialità diventi una delle nuove frontiere del marketing aziendale, un po’ come già è accaduto con la sostenibilità. Forse, esattamente come per la sostenibilità ambientale, il problema sono proprio i numeri: finché l’obiettivo ultimo rimarrà la crescita fine a se stessa, secondo il vecchio modello basato sul profitto, il rischio che i “pacchetti di servizi per le mamme e i genitori” rimangano armi spuntate nelle mani di HR volenterosi, proclami svuotati di concretezza al servizio del trend del momento, iniziative vincolate al buon cuore dell’amministratore delegato di turno invece che basi per nuova cultura del lavoro condivisa è altissimo.
Diritti
Parlare di maternità significa soprattutto parlare di diritti. Per esempio, di quelli che rendono davvero possibile, al di là di ogni retorica, scegliere liberamente se, come e quando diventare madre. Come quello alla casa, che è uno di quelli dei quali si parla meno quando si discute delle condizioni che, sul piano pratico, possono determinare la decisione di avere uno o più figli. O il diritto alla parità retributiva, che smette di rendere quello della madre lo stipendio “sacrificabile” quando, in famiglia, c’è da decidere a chi tocchi fare un passo indietro per occuparsi dei figli. Come riporta il report di Save the Children che citavo prima, nel 2022 un terzo delle mamme occupate aveva un contratto part-time (32% dei casi contro il 7% degli uomini); se ci sono figli minorenni la quota sale al 37%, a fronte del 5,3% dei padri. Il dato che mi colpisce di più è che per la metà delle madri si tratta di un part-time involontario, che non ha scelto. Sempre nel 2022, secondo l’Inl, i genitori che in Italia hanno dato volontariamente le dimissioni erano, nel 73% dei casi, donne; il 65,5% di loro lo ha fatto per la difficoltà di conciliare lavoro e impegni di cura, per mancanza di servizi di welfare e per motivi organizzativi all’interno dei contesti di lavoro. Mi chiedo: cosa c’è di veramente “volontario” in quelle dimissioni se lasciare il lavoro è l’unica possibilità che hai?
Ogni volta che leggo questi numeri, che nelle storie delle mamme sento parlare di scelte che scelte non sono, penso a tutto quello che ci stiamo perdendo. Nel 2013 la Banca d’Italia lo aveva calcolato in termini di Pil: 7 punti in più, se in Italia lavorasse il 60% delle donne (oggi siamo intorno al 50%, con fortissime disparità tra Nord e Sud). Ma qui mi riferisco a un’altra cosa.
Quanto perdiamo dei sogni, dei progetti, della vita delle persone quando restringiamo il campo alla loro possibilità di autodeterminarsi? E a che prezzo individuale e collettivo? Proverò a dirlo anche al contrario: ora che ci vogliono mettere le associazioni pro-life nei consultori per ostacolare la libera scelta di abortire di una donna, che fine fa - ancora una volta - il suo diritto a essere o non essere madre?
Rivoluzione
Non nascondo che arrivo a questa domanda un po’ svuotata. Molte delle cose di cui ho parlato fino a qui fanno parte anche della mia storia di maternità, insieme a molte altre che affollano in questo momento la mia testa. In tempi non sospetti, quando molti dei cambiamenti della mia vita degli ultimi anni erano di là da venire, mi sono ritrovata a pensare, più per istinto che per reale consapevolezza, che l’essere diventata madre fosse stata per me una “rivoluzione”. Solo adesso, dopo anni passati a incrociare la mia storia con molte altre, inizio ad avere contezza concreta di cosa quel pensiero significasse. Anche io, come moltissime, sono andata in mille pezzi. Parlare e scrivere di genitorialità, anche in questo spazio, è uno dei modi che nel tempo ho trovato per provare a rimetterli insieme, trovare un senso a quello che non tornava più, ritrovare un’immagine di me più autentica, in una dimensione che fosse collettiva. L’impressione è che si tratti di un lavoro che è solo all’inizio, ma anche che farlo insieme, attraverso le parole, sia il modo migliore per portarlo avanti.
Ora sono svuotata davvero quindi è tempo dei saluti. Le ultime due righe sono per ricordarti che sabato 25 maggio, alle 16, alla biblioteca Tilane di Paderno Dugnano (MI) parliamo di “villaggio” in un incontro che terrò insieme alla psicoterapeuta Giovanna Gorla e a Lia Calloni di Gaia Family Hub. È la prima volta che questo villaggio esce dalla rete, lo fa a casa e di questo sono felicissima. A questo LINK trovi tutte le informazioni logistiche sull’evento: ti aspetto!
Su questi schermi, invece, ci sentiamo tra due settimane. Un grazie enorme, come sempre, per aver letto fino a qui 🧡 Se ti va, scrivimi e, se ti è piaciuta la newsletter, ricordati che puoi condividerla da qui:
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.