#7 Ci vuole un villaggio I Perché i family benefit funzionano (e i bonus no)
La strategia (vincente) delle aziende che supportano i genitori, un po' di numeri che mi hanno mandato in crisi, il bello di camminare nel vento. E una riflessione sull'ultimo libro di Michela Murgia
Ciao!
Come stai? Io, mentre scrivo questa introduzione al resto della newsletter che è andata a comporsi un pezzo alla volta nelle ultime due settimane, un po’ affaticata, ammetto. Però, poco fa ho ricevuto una lunga mail di una collega che, partendo dal discorso sulla scuola che abbiamo fatto nel numero di due settimane fa, ha voluto raccontarmi la sua esperienza, il suo punto di vista, le sue perplessità. Mi ha fatto enormemente piacere. Giusto oggi sentivo al telegiornale che il Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara avrebbe proposto di mettere la Polizia davanti alle scuole per fronteggiare i casi di attacchi ai professori da parte di studenti e genitori di cui ha parlato la cronaca ultimamente. Non commento, ma dico che sulla scuola, come su tutto il resto, qui si continua a preferire di gran lunga la strada del villaggio.
Ora però, lasciamo la scuola e parliamo di aziende.
Se le aziende sostengono i genitori
Nei giorni scorsi ho avuto modo, per lavoro, di parlare con diversi responsabili delle risorse umane di grandi aziende (del turismo, ma quello che mi hanno detto è applicabile anche ad altri settori). Mi hanno confermato un dato: oggi il welfare aziendale - ovvero l’insieme di benefit che le aziende mettono a disposizione dei propri dipendenti - è sempre più rilevante. In un contesto nel quale il mercato del lavoro è estremamente dinamico, nel quale cioè le persone hanno voglia e tendono a cambiare facilmente lavoro (perché in molti casi insoddisfatte), offrire loro servizi utili è una leva fondamentale per trattenerle in azienda o assumerle. Ecco, allora, che, per chi si occupa di risorse umane, oggi uno dei compiti principali è diventato riuscire a individuare quali siano questi servizi davvero utili. Vista dalla parte del dipendente, la questione è: al di là dello stipendio, cosa l’azienda è in grado di offrirmi perché io scelga di rimanere a lavorare per lei?
Lo spiegava bene a inizio anno il report della società IWG “The Future of Work – Trends Forecast 2024” provando a descrivere come lavoreremo quest’anno: “Nel 2024 – si legge – pacchetti di benefit innovativi diventeranno mainstream e faranno la differenza nella corsa ai talenti. Benefit come il supporto alla fertilità, la cura degli animali domestici e le ferie per i caregiver potrebbero diventare comuni. I lavoratori si aspettano che le aziende offrano sempre più benefit e integrino politiche aziendali a sostegno del loro benessere. Che si tratti di un incremento del congedo parentale, di policy progressive di assistenza all’infanzia o di interventi per affrontare il burnout con un adeguato supporto alla salute mentale, le aziende dovranno essere più attente all’evoluzione delle esigenze e delle richieste dei lavoratori, se vogliono trattenere o attrarre i talenti migliori”.
Leggendo mi aveva colpito come, tra i principali esempi riportati come “benefit innovativi”, ci fossero proprio servizi specificatamente dedicati alla genitorialità: supporto alle fertilità, congedi parentali, assistenza all’infanzia. Non a caso, poche righe dopo, il report sottolineava come, in questo contesto, un ruolo particolare lo giocheranno proprio le politiche volte a sostenere i lavoratori genitori, considerate sempre più “essenziali per mantenere una forza lavoro diversificata e qualificata”.
Genitori che sorridono. Ne avevo parlato, prima di Natale, in un’intervista a Cristina Lucera, la fondatrice di ParentSmile, una piattaforma che eroga servizi ai genitori e ha anche una parte rivolta alla aziende che quei servizi possono, a loro volta, metterli a disposizione dei propri collaboratori. Lucera mi ha raccontato dei benefici di cui godono sia le imprese sia i genitori lavoratori che hanno accesso ai servizi di sostegno quando vengono erogati dalle aziende per le quali lavorano - dalle consulenze sullo svezzamento agli incontri con gli psicologi per affrontare le difficoltà dell’adolescenza, per fare qualche esempio. Riassumendo, in maniera molto sintetica: se sostenuti, i genitori sono più contenti e meno stanchi e questo fa sì che sul lavoro diventino più produttivi e meno propensi a voler cambiare azienda.
La stanchezza, mi spiegava Lucera con un po’ di dati alla mano, è una delle criticità principali: nel 2021 le dimissioni volontarie in Italia hanno riguardato nel 33% dei casi genitori con bambini tra 0 e 3 anni, con 1 genitore che lavora su 4 a rischio burnout. Un problema che interessa in primo luogo le lavoratrici mamme, che lasciano il lavoro più spesso dei lavoratori padri e sono anche molto più esposte al rischio “crollo” per le difficoltà di conciliare impegni familiari e lavoro (ne abbiamo parlato nella prima newsletter dell’anno commentando i dati dell’Inps). La sola privazione di sonno vissuta dai genitori nei primi tre anni di vita dei bambini si stima incida con un calo di produttività del 55%.
“Quando si attraversano fasi di passaggio delicate - riassumeva la fondatrice di ParentSmile - il genitore attiva un meccanismo ‘family first’ che spesso comporta un calo di produttività in azienda. Ecco, i servizi di supporto puntano a ricreare un equilibrio non solamente in senso pratico, ma anche emotivo, rassicurando il genitore che si chiede se sta facendo bene, se può fare meglio, come può migliorare la propria quotidianità, con impatti anche sulla sua vita professionale”.
Una doppia valenza. Sostenere la genitorialità anche sul posto di lavoro funziona, cioè, per due motivi.
Il primo è strettamente pratico: viene erogato un servizio che risponde a un bisogno (che funziona tanto meglio quando, più che una somma di denaro, è un servizio vero e proprio, come nel caso del counseling, dei congedi parentali prolungati o dei nidi aziendali). Il secondo è di natura più psicologica ed emotiva: la persona viene “vista” dall’organizzazione della quale fa parte, si sente supportata come individuo, anche nella sua funzione genitoriale. È il “villaggio” che entra in gioco non lasciandola sola a esercitarla, quella funzione. È in ragione di questa doppia valenza che la strada intrapresa dalle aziende virtuose - e non sono poche - che stanno mettendo in piedi misure strutturate per i propri collaboratori genitori può funzionare davvero.
L’esatto contrario dei bonus una tantum. Un aspetto centrale è rappresentato dalla concretezza delle azioni messe in campo, lì dove i servizi vengono erogati in maniera continuativa e non riguardano soltanto le mamme, ma i genitori in generale. Cosa che è l’esatto opposto della politica statale dei bonus una tantum, compreso l’ultimo provvedimento relativo alla decontribuzione per le mamme lavoratrici, che non solamente è a tempo, ma vale anche unicamente per le lavoratrici dipendenti assunte a tempo indeterminato, con due o più figli. Ovvero, per una quota davvero ristretta delle mamme che lavorano - appena il 6% delle 9,74 milioni di occupate nel 2022, ha stimato l’Inps - con l’esclusione di coloro che hanno un solo figlio, le libere professioniste, le lavoratrici domestiche e tutte quelle con qualsiasi altro tipo di contratto. Ma di questo tipo di approccio e delle sue criticità avevamo già avuto modo di parlare qui e sono abbastanza certa che torneremo a farlo ancora, perché oggi parlare di genitorialità senza parlare del modo in cui lavoriamo non è più possibile.
Piccola nota personale a margine. Da libera professionista, il welfare aziendale è per me cosa sconosciuta e quasi magica. Quando, tempo fa, una delle realtà con le quali collaboro mi ha messo a disposizione i buoni pasto mi sono detta: “Wow!”. Ancora adesso, quando alla cassa del supermercato o al bar coi colleghi tiro fuori la magica tesserina, ne rimango stupita. Posso solo immaginare la sensazione di sentirsi dire: “Ok, ti è nato un figlio. Stai a casa qualche mese in più di quelli previsti dalla legge, ci pensiamo noi”. Utopia pura.
Immaginarci in modi nuovi
Intanto, in un sabato pomeriggio di non lavoro, mi sono presa il tempo per leggere “Dare la vita” di Michela Murgia e, come promesso, ne parliamo un po’ qui. In questo suo ultimo libro, uscito postumo, Murgia parla di genitorialità, maternità, di famiglie e di gestazione per altri e, di conseguenza, di scelte, di libertà, di affidabilità e fedeltà, di soldi, corpi e strutture sociali. Ai primi temi è dedicata la parte del libro scritta nell’ultimo periodo della sua vita, nella quale racconta della sua famiglia queer e di cosa sia una famiglia interamente fondata sulla scelta reciproca. Nella seconda parte, invece, affronta il tema della gestazione per altri con una serie di testi scritti tra il 2016 e gli ultimissimi giorni di agosto dello scorso anno. Un libro che, spiega nella postfazione Alessandro Giammei, figlio d’anima di Murgia e professore di italianistica all’Università di Yale che lo ha curato, avrebbe dovuto essere scritto in 6 mesi ed è stato scritto in sei settimane. Mi sono chiesta, mentre leggevo, a che punto di sviluppo ulteriore Murgia avrebbe potuto portare la riflessione sulle forme della famiglia e della maternità se avesse avuto a disposizione quei 6 mesi o tutto il tempo che avrebbe meritato.
Farsi domande per coltivare il dubbio. “Dare la vita”, infatti, non dà risposte, anche se la posizione di Murgia su alcuni versanti è chiarissima. Pone e suscita, però, molte domande. Due, soprattutto, mi seguono da quando ho finito di leggere il libro: “È ancora il nostro ruolo sociale così condizionato dalla maternità a spingerci a surrogare la gravidanza per soddisfare il desiderio di unə figliə?”, per dirla con le sue parole esatte. E, ancora - non virgolettato: come si può fare un discorso eticamente solido e normativo sulla gestazione per altri che non sia inficiato dai rapporti di classe e di potere economico e sociale della società nella quale viviamo, e che Murgia ben descrive a cornice di tutto il discorso?
Non ho chiaramente risposte. Credo, però, che il senso delle riflessioni, che così fortemente Murgia ha voluto raccogliere in questo libro che sapeva sarebbe uscito postumo, stia in quello che scrive, a un certo punto, nelle primissime pagine:
“Entrambe (ovvero la questione queer e quella della gestazione per altri, ndr) rivelano i limiti del concetto di normalità e offrono spunti per immaginarci, come società, in modi nuovi, che credo saranno più abitabili per chiunque avrà il coraggio di sfidare lo stato statico dello Stato. Non per includere, in quel che già offre, chi rimane ai margini delle sue norme, ma per ridisegnare daccapo ciò che quelle norme hanno definito in confini spesso illogici, a partire dalle parole e dai luoghi comuni che ce le rendono familiari come il guinzaglio di un cane invecchiato (lo stato interessante, la sacra famiglia, eccetera)”.
Per questo motivo, quest’ultimo libro di Murgia è necessario, perché al di là di come la si possa pensare su questioni delicatissime come la gestazione per altri, a “immaginarci in modi nuovi”, come scrive lei, siamo chiamati perché quei modi nuovi sono già nelle vite che facciamo. Allora, riflettiamoci su, facciamoci domande - anche senza necessariamente trovare risposte scalfite sulla pietra - chiediamo allo Stato di vederli, quei modi nuovi, e di farsene carico: questo ci dice Murgia. In fondo, è quello che ha sempre fatto lei: “Coltivare il dubbio per sognare orizzonti anche più ambiziosi”.
Un sorriso. E poi leggendo, nelle primissime pagine, mi è scappato un sorriso:
“Per far crescere un bambino ci vuole un villaggio, dice un antico detto africano, ma la politica continua a ripetere l’esatto contrario: per far crescere un villaggio, ci vogliono bambinə, e siccome non lə fate, la colpa della decrescita è vostra. Le campagne paternaliste come l’indimenticato Fertility Day, che scaricano sulle donne la responsabilità delle culle vuote, non sono non servono a nulla, ma sono offensive e umilianti. Le donne italiane ricominceranno a dare la vita quando per farla venire al mondo e crescerla non sarà più necessario amputare la propria”.
Null’altro da aggiungere.
Cose da leggere, vedere, fare
Sono andata in crisi. Qualche giorno fa sono andata in crisi più di quanto non vada ultimamente rispetto a una domanda che ormai mi assilla da tempo: sto vivendo e sto facendo vivere mia figlia nel posto migliore per noi? È successo leggendo
, la newsletter di Donata Columbro che la scorsa settimana aveva come titolo: “Che città abbiamo progettato per bambini e bambine?”. Qui Columbro, che è una data journalist, mette insieme una serie di dati sull’assetto delle città nelle quali viviamo rispetto al loro essere a misura di bambini e bambine. Lo fa per provare a rispondere a una domanda sollecitata da un viaggio che ha fatto nella città belga di Gent, la stessa che mi faccio io: “Sto facendo crescere i miei figli nel posto migliore per loro?”. Mi ha colpito, in particolare, il riferimento all’impatto sulla qualità della vita del modello urbano, per come lo conosciamo, in termini di “isolamento (inteso come minore partecipazione ad attività collettive, se si pensa che per ogni 10 minuti passati nel traffico la partecipazione ad attività comunitarie scende del 10%)”. Ecco, leggendo, io una risposta me la sono data. E sono andata in crisi.E tu, te lo chiedi mai? E cosa ti rispondi? Se ti va, scrivimi e parliamone.
Perché rimaniamo bambini così a lungo? Se hai una mezz’oretta, ti consiglio di vedere questo video del magazine Lucy-Sulla cultura nel quale il filosofo evoluzionista Telmo Pievani spiega perché i cuccioli di uomo rimangono “piccoli” molto più a lungo di quelli di altre specie. Una caratteristica della nostra specie che ne ha garantito il successo e, insieme, racchiude il senso profondo dell’essere “umani”, inteso come la capacità di prendersi cura dei più fragili.
A spasso nel vento. Qualche domenica fa con mia figlia e un’amica abbiamo fatto una gita a Lecco: mi hanno preso in giro per tutto il tempo perché l’avevo organizzata senza badare troppo alle previsioni del tempo. Erano i giorni freddi di gennaio e tirava un vento gelido. Ed è successa una cosa particolare: nonostante il freddo che pure abbiamo preso, il lunedì dopo - io che il vento l’ho sempre mal sopportato e, appena possibile, evitato - mi sono sentita in gran forma, soprattutto mentalmente. È stato come se il vento mi avesse "sferzato”. Ed è stato esattamente così. L’ho scoperto qualche giorno fa leggendo “Sul camminare”, il libro nel quale la scrittrice inglese Annabel Streets racconta 52 modi di camminare - uno a settimana, per un anno - in diverse condizioni: sotto la pioggia, scalzi, coi piedi in acqua, con gli amici a quattro zampe, in solitaria, sotto le stelle, e via discorrendo. Per ciascuno, mette insieme scienza, letteratura, aneddoti pop e personali che, da diverse angolature, spiegano perché siamo fatti per camminare e perché farlo ci fa stare così bene. A proposito del camminare nel vento, Streets spiega che in olandese si dice lekker witwaaien, che si può tradurre con “una bella sferzata”, appunto. “Per gli olandesi - scrive - camminare nel vento è come fare una pulizia primaverile emotiva: la vecchia polvere viene piacevolmente spazzata via per tornare rinvigoriti, rivitalizzati e pronti a ricominciare”. Personalmente non vedo l’ora di rifarlo e, intanto, mi sono data come impegno quello di provare tutti i 52 modi di camminare raccontati nel libro. Ti farò sapere come va.
Cose mie (utili)
Parliamo di fratelli e sorelle. Oggi sul profilo Instagram di Giovani Genitori chiacchiero con Silvia Iaccarino di Percorsi Formativi 0-6 di fratelli, sorelle, gemelli, equilibri che cambiano quando la famiglia si allarga e cambia forma. Ci vediamo? La diretta è alle 13.30, ma poi come sempre rimane salvata nel feed del profilo di GG e anche del mio.
Un’intervista bella. Sul numero di Vegolosi MAG di febbraio è uscita una mia intervista alla quale tengo molto perché frutto di una bella e piacevole chiacchierata con uno scrittore che ho scoperto nell’ultimo anno (e che vi ho già consigliato): Franco Faggiani. Abbiamo parlato di montagna, di scrittura, di cambiamento climatico, di spopolamento e ripopolamento delle terre alte. Con lui, che alla montagna e alle storie delle donne e degli uomini che la vivono ha dedicato tutta la propria attività di narratore, ho provato a capire cos'è che, in maniera fortissima dopo la pandemia, ha iniziato ad attirarci in tantissimi (me compresa) verso l'alto e verso il verde e se siamo davvero pronti a una "risalita" che proprio la crisi climatica potrebbe ulteriormente accelerare. Se ti va, puoi leggerla insieme a tanti altri articoli e ricette super da qui: Vegolosi MAG.
Direi che anche per questo numero è tutto. Grazie, come sempre, per aver letto fino a qui 🧡
Se la newsletter ti è piaciuta, puoi mettere un cuoricino e inoltrarla a chi vuoi da questo bottone:
Noi ci leggiamo tra due settimane!
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che sembrano lontane tra loro e che, invece, hanno molto più a che fare l’una con l’altra di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin.