#18 Ci vuole un villaggio I A proposito di smartphone, social e ragazzi
La scorsa settimana se ne è discusso molto: proviamo a farlo anche qui con un'intervista e qualche spunto utile ad approfondire il tema
Ciao!
Hai presente l’espressione “essere sul pezzo”? Ecco, avevo programmato l’intervista che leggerai tra poco da prima delle vacanze: era un po’ che volevo tornare sul tema del rapporto tra ragazzi, social e device e noi genitori (ne avevo già parlato all’inizio dell’anno, qui). Abbiamo fatto l’intervista lunedì scorso e giusto il giorno dopo è uscito un appello-petizione da parte di alcuni tra i pedagogisti italiani più noti - sottoscritto da molti esperti e rappresentanti del mondo della cultura e dello spettacolo - del quale avrai probabilmente letto perché se ne è parlato moltissimo sui social e anche sulla stampa generalista. Con l’appello si chiede al Governo di intervenire per introdurre il divieto di uso del cellulare fino a 14 anni e dei social fino a 16.
Ma andiamo con ordine. Lascio spazio all’intervista, poi torniamo sulla petizione e ti dico cosa ne penso io.
Partiamo!
L’intervista è ad Alessio Carciofi, esperto di benessere digitale, autore del libro “Wellbeing. Il futuro umano e digitale del benessere” e della newsletter settimanale “Digital wellbeing”, che ti consiglio se, come me, sei costantemente in cerca di un equilibrio più sano tra i mille stimoli di cui sono fatte - e con cui spesso si scontrano - le nostre vite. Da cinque anni, ogni estate Alessio tiene un campus di digital education per ragazzi tra gli 11 e i 17 anni (quest’anno ne ha fatti addirittura due). Per questo, mi sembrava la persona giusta alla quale chiedere un punto di vista sulla salute digitale dei ragazzi. E, allora, iniziamo proprio da qui.
Alessio, che cosa osservi durante i campus estivi? Come stanno i ragazzi?
I campus hanno come obiettivo riportare i ragazzi nella natura e nelle relazioni. Per questo la giornata è strutturata in attività legate alla digital education al mattino e allo sport al pomeriggio. Le “aule” sono i grandi campi del Trentino o le pinete del grossetano: l’obiettivo è creare relazione. Per noi adulti significa provare a mettersi sul loro piano perché, come dico sempre, solamente se i ragazzi ti danno il loro “pin” riesci a entrare nella loro vita, nei loro cuori. Come li trovo? Nella maggior parte dei casi conducono vite isolate – non parlo di solitudine: recentemente don Luigi Ciotti ha augurato ai ragazzi di trovare tanta solitudine perché nella solitudine ti fai domande e incontri te stesso. Questi ragazzi, invece, sono isolati. E molto disorientati rispetto al futuro, del quale hanno tantissima paura – e non il futuro da qui ai prossimi 20 anni, ma rispetto a cosa faranno o a quali scelte dovranno compiere l’anno prossimo.
Rispetto a questi sentimenti, che ruolo gioca secondo te il loro rapporto con la rete?
Uno dei campus di quest’anno era organizzato in collaborazione con Webboh, che è la piattaforma di Mondadori più seguita dalla Gen Z, e prevedeva una serie di incontri tra i ragazzi e alcuni creator. Per me era la prima volta di un’esperienza di questo genere e ammetto che sono arrivato un po’ prevenuto: i ragazzi osannano - letteralmente - questi creator che poi, in fondo, sono ragazzi come loro. Ho provato a mettermi in ascolto, sospendendo il giudizio: ho sentito e letto moltissime testimonianze e ho trovato un filo rosso: i ragazzi ringraziavano i creator per esserci sempre nelle loro vite, anche nei momenti più difficili. Sono racconti che mi hanno molto colpito: questi ragazzi portano un fardello emotivo pazzesco e ai loro beniamini restituiscono un senso di gratitudine immensa per la loro presenza costante – a fronte della mancanza spesso di altre istituzioni convenzionali, come la famiglia o la scuola. Racconto tutto questo per dire che noi adulti abbiamo bisogno di depurarci da certi pregiudizi perché, forse, non ci stiamo capendo niente di come loro vivano questo mondo di relazioni ibridate.
E arriviamo a noi adulti.
I ragazzi sono spaventati perché hanno un carico di aspettative che viene da una cultura che noi grandi trasferiamo a loro, come se fossero lo specchio di quello che siamo riusciti a fare o non fare noi. E poi sono molto fragili. Vedo tanti casi di autolesionismo anche grave, attacchi di panico e ansia, paura di confrontarsi. Però sono anche ragazzi con un cuore grandissimo, che chiedono solamente di essere ascoltati. Per me quelle dei campus estivi sono le settimane più belle dell’anno, dalle quali imparo anche molto: se tu adulto vuoi metterti in relazione, devi davvero fare un “downgrade”, imparare a giocare con te stesso, a comunicare in un modo diverso.
Nel resto dell’anno tu lavori con gli adulti, nelle aziende, occupandoti di benessere digitale. Quanto siamo preoccupati noi genitori rispetto a questo capirci poco del mondo dei ragazzi e del loro rapporto con i social?
Nell’ultimo anno ho inserito nei miei corsi proprio un workshop sul digital parenting: sono le aziende stesse a chiedermelo perché le persone sono sempre più in difficoltà nella triangolazione genitori-tecnologia-figli. È una sfida tostissima. Io credo che si debba partire dal capire e condividere quali sono i ruoli che la tecnologia può assolvere nelle diverse fasce d’età e lavorare sulla consapevolezza delle persone, che già sta aumentando molto.
A proposito di questa difficoltà, mi hanno molto colpito i dati di uno studio condotto sulle famiglie milanesi secondo i quali i genitori sarebbero dell’idea di dare il cellulare ai ragazzi a 14 anni, ma nella maggior parte dei casi lo concedono intorno agli 11.
Secondo l’ultimo rapporto di Save The Children, l’età media in cui i bambini hanno il cellulare si è abbassata a 8 anni. Io sono dell’idea che le regole, specialmente quando i bambini sono molto piccoli, siano fondamentali. Ma regole per noi adulti, prima di tutto. Poi, col passare degli anni, diventano fondamentali la relazione e l’ascolto, soprattutto quando – come è normale e sano che sia – si entra nella fase del conflitto. Mettersi di traverso, con divieti imposti dall’alto, non credo serva a molto. Il punto è chiedersi: come mi pongo io adulto rispetto alla relazione tra i ragazzi e il cellulare? Parliamo molto della mancanza di sicurezza in rete, ma il tema credo che sia anche il fatto che siamo diventati iperprotettivi nella vita reale.
Cosa intendi?
La teoria dell’autodeterminazione si basa su due ingredienti fondamentali, che sono la competenza e la libertà. Oggi facciamo facciamo fatica a far sentire i ragazzi competenti – pensiamo a quanto spesso ci sostituiamo a loro nel rapporto con la scuola, lo studio, i compiti. Al campus c’erano ragazzi controllati con l’AirTag. Ecco, se non li facciamo sentire noi competenti, autosufficienti, liberi, là fuori c’è un mondo, come quello dell’online e del gaming, che sa farlo molto bene e nel quale non ci sono adulti di riferimento a controllare. Per questo non penso sia un problema di tecnologia, ma di educazione.
Prima parlavi di regole. Facciamo qualche esempio?
Posto che non esistono regole valide per tutti, la prima che mi sento di suggerire è: non togliere la tecnologia o, almeno, non farlo in maniera autoritaria ma rimanendo sempre nell’ascolto dei ragazzi. E poi chiedersi: io cosa faccio? Perché se io genitore sono il primo a mettermi a rispondere alle mail di lavoro mentre siamo a tavola insieme, è chiaro che sarà molto difficile chiedere a un ragazzo di staccarsi dal suo telefono. E poi, fare cose insieme, condividere tempo ed esperienze. Prima dicevo che è prima di tutto una questione di educazione e di cultura: la cultura ha un costo, che è il tempo. Spesso diamo in mano ai bambini il telefono perché siamo noi a non averne. Non è facile, ma mi sembra un approccio più realistico di chi vorrebbe vietare lo smartphone ai ragazzi fino ai 16 anni.
È chiaro che è un discorso che trascende la tecnologia e investe i nostri stili di vita e di lavoro. Lo sappiamo tutti che mettere un bambino davanti a uno schermo è un calmante perfetto, e spesso non si hanno alternative…
È difficile proprio per questo, perché richiede che ci si fermi da tutto il resto per mettersi in relazione e in ascolto.
Proprio perché è una questione che riguarda tempi e spazi delle nostre vite, personalmente trovo molto interessanti le esperienze dei “Patti digitali”, che permettono ai genitori di mettersi in rete e condividere a livello di comunità opinioni, scelte e buone pratiche rispetto all’uso dei device da parte dei ragazzi, allentando così la pressione sulle singole famiglie e la sensazione dei genitori di sentirsi soli davanti a certe scelte. Tu cose ne pensi?
Trovo che siano degli ottimi progetti proprio perché si basano sul confronto e la condivisione, partendo dalla consapevolezza che siamo prima di tutto noi adulti che abbiamo delle cose da imparare o disimparare.
Per riassumere
Non ho fatto in tempo a chiedere direttamente ad Alessio Carciofi cosa ne pensasse della petizione per il divieto di smartphone fino ai 14 anni perché è stata lanciata il giorno dopo che ci siamo sentiti per questa chiacchierata. Ma ne ha parlato lui sul suo profilo Linkedin, riprendendo molti dei concetti della nostra intervista. Mi sembrano un ottimo riassunto di quanto detto finora:
“Ma è davvero realizzabile?
Pensiamo alla realtà: come possiamo applicare queste regole in un mondo dove la tecnologia è ovunque? Immaginiamo mio figlio: se tornasse a casa e scoprisse che tutti i suoi compagni hanno il cellulare tranne lui?
Non basta un semplice “divieto”.
La soluzione non è vietare, ma educare.
L'educazione ha un grande costo: il tempo. Ci vuole tempo.
Ne ha uno ancora più grande: non iniziare.
Dobbiamo dare ai genitori strumenti concreti per guidare i loro figli verso un uso consapevole e responsabile della tecnologia. Piuttosto che parlare di "divieti", iniziamo a parlare di "evitare", promuovendo l'equilibrio. Il benessere digitale.
Questo sì che è un approccio applicabile nella realtà”.
E io cosa ne penso della petizione?
Concordo sostanzialmente con Alessio e con molte persone che nei giorni scorsi si sono espresse sottolineando la difficoltà di un approccio di quel genere. Educazione (soprattutto di noi genitori), tempo, ascolto: più che dai divieti credo che la strada passi da qui. Trovo, però, che la petizione abbia avuto un merito: sollevare il tema, fare riflettere e discutere l’opinione pubblica. È lo stesso motivo per il quale trovo molto interessanti le esperienze dei “Patti digitali”:
quello del rapporto con la tecnologia e con i social di bambini e ragazzi è un tema educativo enorme rispetto al quale scaricare la responsabilità sulle singole famiglie è, ancora una volta, la via più facile da seguire. E, allora, mettiamoci in rete, parliamone, condividiamo le scelte, affrontiamole insieme.
Se ti va di dirmi tu cosa ne pensi o di condividere la tua esperienza (ma anche ansie, pensieri e preoccupazioni valgono: siamo qui apposta!), scrivimi che se ne parliamo è meglio:
Per approfondire
Ti segnalo qui alcuni spunti e letture utili per approfondire il tema:
Su cosa siano i “Patti digitali”, come funzionano, come sottoscriverne e attivarne uno sul territorio, trovi spiegato tutto sul sito ufficiale del progetto (a questo link). Una curiosità: l’iniziativa è stata presentata ufficialmente lo scorso ottobre nel corso di un convegno al quale è stato dato come titolo: “Ci vuole un villaggio: i patti di comunità per l’educazione digitale”: tutto torna!
In occasione dell’attivazione del “Patto digitale” di Milano è stata condotta una ricerca molto interessante tra i genitori e i ragazzi milanesi sull’uso di cellulare e social (è quella a cui faccio riferimento nell’intervista): leggendo le conclusioni (le trovi qui), mi hanno colpito soprattutto due punti: la forte preoccupazione di noi genitori e lo scarto di addirittura 4 anni tra l’età effettiva di arrivo dello smartphone nelle mani dei ragazzi (11 anni) e quella che i genitori riterrebbero giusta sulla carta (14 anni).
In questo articolo de “Il Sole 24 Ore” si trovano riassunte le prime conclusioni di una ricerca che sta portando avanti l’Università Bicocca di Milano sugli effetti di smartphone e social sull’apprendimento scolastico: è interessante perché pone l’accento sull’accesso precoce a questi strumenti, in modo particolare ai social, dimostrando come sia associato negativamente a diversi indicatori di benessere a 16 anni.
Per cercare di capire cosa dicono gli studi scientifici sul tema condotti finora - e anche per contestualizzare meglio il dibattito di questi giorni su divieti e regole - ti consiglio il riassunto che ne ha fatto su Linkedin (in questo post) Marco Gui, professore di Sociologia del Media alla Bicocca, che sta portando avanti lo studio condotto dall’ateneo milanese ed è anche tra i principali promotori dei “Patti digitali”.
È uscito proprio questa settimana anche in Italia un libro che era molto atteso e che ha fatto discutere negli Stati Uniti: “La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli”, di Jonathan Haidt. Non l’ho ancora letto, ma lo scenario che dipinge è abbastanza catastrofico, stando a quanto ho potuto capire. Torneremo a parlarne perché credo che contenga comunque spunti di riflessione interessanti.
A proposito di educazione digitale di noi adulti, ho trovato molto carina “Genitori Connessi”, la serie di pillole social realizzata da Mammadimerda insieme a Germano Lanzoni de Il Milanese Imbruttito e Francesca Valla, ovvero Tata Francesca. Si tratta di un progetto di sensibilizzazione promosso da Meta. È interessante perché ogni puntata dà, in una manciata di minuti, un consiglio molto pratico sull’uso di Instagram, a proposito di filtri, controllo parentale, buone maniere in rete: al di là dei grandi discorsi di contesto, che pure servono, l’educazione si fa prima di tutto in questo modo: imparando a usare gli strumenti che abbiamo in mano.
Un appuntamento live
Prima di salutarci, ti segnalo un appuntamento live dove, se ti va, possiamo vederci a fine mese: lunedì 30 settembre, alle 17, avrò infatti il piacere di moderare un bellissimo incontro che si terra a “Terra Madre. Il Salone del Gusto”, a Torino.
Il tema sarà: “L’educazione del gusto nei primi mille giorni”. Con me ci saranno Gabriella Morini, ricercatrice in Scienze del Gusto e del Cibo dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, Martina Riina, pedagogista e antropologa dell’Università del Piemonte Orientale, e Alessandra Bellasio, ostetrica e consulente in allattamento. Parleremo di scelte alimentari, stili di vita e allattamento, ma anche di diritto alla salute, accesso ai servizi e benessere psicofisico. L’incontro sarà in diretta anche sul profilo IG di @GiovaniGenitori ma, se per caso sei a Torino e riesci a passare di persona, è ancora meglio.
E anche questo numero è giunto a conclusione, un numero tematico in cui non c’è stato molto spazio per altro, ma ormai lo sai che tendo ad allargarmi un po’ quando scrivo questa newsletter 😊
Però, ho un po’ di appunti sparsi e libri di cui vorrei parlarti quindi, mi raccomando, ci leggiamo tra due settimane 🧡
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.