#11 Ci vuole un villaggio... anche nei paesi
Da Pontremoli al film "Un mondo a parte", storie, dati, progetti, riflessioni sul villaggio fuori dalle grandi città
Ciao!
Questo numero si apre con una faccia che trovo decisamente simpatica e che da qualche giorno fa da sfondo anche al mio cellulare.
È di uno dei reperti del Museo delle Statue Stele di Pontremoli: stele in pietra risalenti a 5mila anni fa della cui origine e funziona si sa ben poco. In quell’area, siamo nella Lunigiana storica, ne hanno ritrovate - spesso in maniera molto fortuita - 85 e le hanno raggruppate in un bel museo che ha sede nel Castello del Piagnaro, in cima al paese. Perché ti racconto questa storia? Perché la faccia di questa stele mi strappa un sorriso ogni volta che la guardo - magari lo strappa anche a te - e perché quello di cui voglio parlare in questo numero parte da Pontremoli, passa da “un mondo a parte” e porta non so ancora bene dove.
Direzione Lunigiana
Pontremoli è un bel borgo incastonato tra due corsi d’acqua - il fiume Magra e il torrente Verde -, famoso per gli antichi ponti che ne permettono l’accesso, i testaroli al pesto, i dolcetti tipici Amor, le stele, appunto, e il premio letterario Bancarella. Considerato nell’antichità “unica chiave e porta della Toscana”, ha sempre svolto un ruolo strategico perché situato in una posizione chiave, lungo le rotte commerciali tra Toscana, Emilia e Liguria. Percorsi lungo i quali, sin da Cinquecento, iniziarono a spostarsi anche venditori ambulanti di libri portando stampe e almanacchi nei grandi centri del Nord Italia dove poi, col tempo, iniziarono a stabilire le loro “bancarelle” fisse e, infine, vere e proprie librerie. Ed è da questa antica tradizione libraria che, negli anni Cinquanta del Novecento, è nato il premio letterario Bancarella, che ha reso definitivamente il borgo la “città dei libri” (è una storia molto bella, questa, la trovi raccontata per bene qui).
Sono stata a Pontremoli nei giorni di Pasqua. Desideravo andarci da tempo perché non ero mai stata in Lunigiana e perché qualche mese fa avevo letto e iniziato a seguire via social la storia di un progetto molto interessante promosso da un’associazione locale di volontari, che si chiama Start-Working Pontremoli. Con il patrocinio del Comune, già da qualche anno l’associazione ha messo in rete alcune case del paese che erano rimaste vuote per darle in affitto a prezzi accessibili, ha allestito uno spazio di coworking e strutturato una serie servizi di accompagnamento per conoscere il territorio e inserirsi nel tessuto sociale locale. Obiettivo: accogliere i cosiddetti nomadi digitali, gli smart workers e chiunque voglia vivere e lavorare lì “per un mese, un anno o per tutta la vita”, e insieme, promuovere il territorio e il suo patrimonio e sviluppare nuove occasioni di lavoro che lo rilancino. Il progetto sta funzionando: le persone continuano ad arrivare, anche dall’estero, e molte si fermano, anche a lungo.
Il futuro sarà dei piccoli paesi?
È da un po’ di tempo che per lavoro sto studiando storie e progetti come quello di Pontremoli che, in chiave turistica ma non solo, riguardano le aree interne, le terre alte, i borghi. È un tema che mi interessa molto, lo ammetto, prima di tutto sul piano personale: come molti in questo periodo, anche io mi chiedo se e per quanto tempo ancora il mio futuro sarà alle porte di una metropoli o in un centro più piccolo, interno, più alto. Ma non è solo questo. Qualche giorno fa leggevo un articolo di Antonio Calabrò sull’Huffington Post che si apre con una domanda: "Il futuro sarà delle metropoli o dei borghi?".
È un interrogativo legittimo: la tensione tra "metropoli e borghi" - diciamo tra grande città e tutto quello che non lo è, al netto delle specificità dei singoli luoghi - è esplicativa di tutta una serie di questioni rispetto alle quali urgono decisioni che, in una direzione o nell'altra, disegneranno l'Italia del prossimo futuro, a partire proprio dai territori: lo stato dei servizi, della scuola e del welfare, gli investimenti sulle infrastrutture fisiche e digitali, il governo delle nuove forme di turismo, le misure di adattamento climatico, le politiche del lavoro e quelle dell'inclusione e della coesione sociale. Insomma, scelte strategiche, che danno forma al vivere di comunità che possano definirsi tali e che hanno al centro una parola: servizi.
Un mondo a parte
È una cosa che mostra benissimo, in modo ironico e insieme amaro e per certi versi commuovente, “Un mondo a parte”, il bel film di Riccardo Milani con Virginia Raffaele e Antonio Albanese, uscito al cinema nei giorni scorsi. È la storia di una vicepreside che si batte perché la scuola di un piccolo paese di montagna nel Parco Nazionale d’Abruzzo, che conta una sola pluriclasse di 8 alunni, non chiuda, e di un maestro, che in quel paese ci arriva scappando da Roma per inseguire il miraggio della felicità rurale. Una felicità che finirà effettivamente per trovare, ma solo dopo essersi “acconciato”, per dirla come il bidello della scuola, dopo aver capito, cioè, cosa significa davvero vivere in montagna.
È un film che racconta di cosa hanno bisogno i paesi delle terre alte quando noi della città, che tanto li amiamo per i ruscelli d’estate e il foliage d’autunno, ce ne andiamo perché nevica troppo e fa freddo. È la storia dello spopolamento delle aree interne, della rassegnazione “che si mangia a colazione come la scamorza” vissuta da chi ci vive e non fa figli perché ha paura per quando diventeranno adolescenti. Perché posti come quelli, racconta la vicepreside a un certo punto, sembrano il paradiso quando si è bambini, ma diventano un inferno dal quale vuoi solo scappare quando hai 15 anni. È, soprattutto, la storia di ciò che tiene viva una comunità: la scuola. Il servizio per eccellenza, insieme ai presidi sanitari. Perché è solo se la scuola c’è e funziona che comunità come quelle del film hanno una speranza di sopravvivere, altrimenti succede che le poche famiglie con i bambini se ne vanno. E i paesi, un po’ alla volta, muoiono.
Via dalla città
“Un mondo a parte” è un film di grande attualità anche perché tocca un sentire comune diffuso. Io e il maestro interpretato da Albanese non siamo gli unici a sentire il richiamo della vita fuori dalla grande città. Si coglie nei discorsi tra le persone, nelle analisi dei sociologi, persino nei bollettini sui costi della case. La pandemia ha innescato - o forse solo dato una spinta - a una serie di dinamiche che hanno cambiato la percezione di molte persone rispetto al rapporto con il lavoro, alle priorità della vita, al contatto con la natura. C’entra anche il fatto che le grandi città stanno diventando luoghi nei quali vivere è sempre più difficile: troppo care, assaltate dal turismo aggressivo e non regolato degli affitti brevi che sta sballando completamente il mercato immobiliare rendendo difficile trovare alloggi residenziali a prezzi sensati, troppo calde per colpa del cambiamento climatico.
Non è un caso che lo scorso anno la domanda di abitazioni da acquistare sia cresciuta in montagna del 4,9%, con prezzi in aumento sul nuovo nelle località turistiche più note del 5,6% e, in generale, con un rialzo diffuso delle quotazioni un po’ ovunque (le stime sono di Abitare Co.). È la legge del mercato: i prezzi crescono perché cresce la domanda. Molte ricerche, come Miclimi, focalizzata sull’area della Metromontagna del Nord-Ovest, il territorio compreso tra i poli di Milano e Torino, stanno analizzando il fenomeno: anche se i numeri assoluti non sono alti, una “migrazione” verso le aree interne e la montagna è già in corso da tempo. Dopo anni di abbandono, di spopolamento e di invecchiamento della popolazione rimasta, da 15-20 anni a questa parte si registra un flusso lento, ma crescente, anche grazie al contributo della popolazione straniera, ma non solo; gli effetti del cambiamento climatico, prevedono gli esperti, non potranno che dare un’ulteriore spinta.
E poi c’è chi resta
C’è anche chi dalle aree interne di origine decide di non andarsene più oppure di tornare dopo aver studiato e lavorato fuori, riportando competenze, energie, innovazione. È la “restanza”, dal nome che a questo fenomeno ha dato qualche anno fa l’antropologo Vito Teti.
Lo scorso anno, la bravissima collega Claudia Bellante aveva raccolto diverse storie di “restanza” in un bell’articolo che abbiamo pubblicato su Vegolosi MAG (lo trovi qui). Aveva intervistato il sociologo Andrea Mambretti che, con l’associazione Riabitare l’Italia, ha condotto la ricerca “Giovani dentro” per capire chi sono e cosa cercano i ragazzi che tornano o restano nelle zone interne:
“Sicuramente - raccontava - a spingere i giovani a restare c’è l’ambiente, visto come incontaminato, che rappresenta un fattore attrattivo. Associato a questo c’è il paesaggio, quindi la bellezza che si attribuisce ai luoghi, e la presenza di spazio. Soprattutto dopo la pandemia le persone si sentono meglio lontane dalle folle. La rarefazione sociale permette poi a quelli che noi chiamiamo ‘innovatori del margine’ di sperimentare nuove forme innovative di microimpresa che in un contesto sovrappopolato come la città difficilmente riuscirebbero a risaltare. I paesi offrono un senso di comunità, di vicinanza. Tutto questo ovviamente deve essere accompagnato da una connessione che sia di infrastrutture ma anche digitale. Se un territorio è completamente isolato le persone non riescono a viverci”.
La buona volontà non basta
Mambretti toccava i punti fondamentali della questione. Rispetto a qualche decennio fa, una tendenza che va nella direzione opposta allo spopolamento c’è. E se, allora, fosse questa l’occasione giusta per tornare ad abitare davvero i luoghi che non sono la città, un po’ come stanno provando a fare a Pontremoli? Adesso che ci sono persone che hanno voglia di restare, di tornare, di andare ad abitare le aree interne e le terre alte, forse è il momento di metterci i soldi: investire sui servizi - sulla scuola e sulla sanità, prima di tutto. Perché è chiaro che la buona volontà dei singoli, come quella dei ragazzi di Pontremoli o della vicepreside del film, non basta. Serve, anche, una visione strategica perché questa spinta si concretizzi in progetti che non snaturino o, peggio, danneggino l’ambiente e la cultura dei luoghi - come già è avvenuto in passato in molte località del turismo di massa montano - ma che sappiano interpretarli in maniera contemporanea, ma rispettosa, autentica, sostenibile.
I soldi, almeno in parte, ci sarebbero anche, come quelli della politica di Coesione Europea: fondi per miliardi di euro e strumenti che hanno l’obiettivo di ridurre le differenze fra i territori e di permettere ai cittadini e alle cittadine, ovunque siano nati, vivano, risiedano e lavorino, di avere le medesime opportunità. Una parte di questi fondi UE, per esempio, finanzia la Rete nazionale delle Piccole Scuole, il cui scopo è far sì che gli istituti situati in territori geograficamente isolati, come la scuola del film, possano continuare a svolgere il proprio ruolo di presidio educativo e culturale, aiutando così a contrastare il fenomeno dello spopolamento. Questo attraverso la messa in rete di esperienze e la sperimentazione di modalità di lavoro comune permesse dalla didattica a distanza e dall’uso della tecnologia che ha prodotto, in molti contesti, ottimi risultati. Mi ha molto colpito, guardando il sito di Piccole Scuole, la mappa di quelle aderenti: sono praticamente ovunque, su tutto il territorio nazionale. Non è un caso: dal cuore delle grandi città spesso non ce ne rendiamo conto, ma i “paesi”, i centri minori e cosiddetti “marginali”, coprono il 60% dell’intera superficie italiana e rappresentano il 52% dei Comuni, anche se vi abita solamente il 22% della popolazione.
In generale, sulla politica di Coesione Europea c’è una serie di approfondimenti che il sito Slow News dedica da anni al racconto di come funzionino questi fondi e di come vengano usati (non sempre in modo ottimale). Proprio questa settimana è uscito un articolo di Sarah Gainsforth dedicato al paese pugliese di Biccari: un esempio virtuoso di come i finanziamenti pubblici, gestiti bene, possano fare la differenza nel fermare lo spopolamento e, anzi, dare nuova linfa alla vita dei piccoli centri, anche a partire dai servizi pensati per le famiglie e i bambini.
“Mamma, andiamo a vivere a Pontremoli!”
Mi ha molto colpita che, al nostro rientro dalla Lunigiana, mia figlia mi abbia detto più volte: “Mamma, mi manca Pontremoli!” fino anche a un “Andiamo a vivere lì!”. Può essere che abbia fatto suo il mio entusiasmo per i quattro giorni passati a camminare nel verde, fare la spesa al mercato, mangiare cose buone e leggere su un balconcino affacciato sui tetti medievali. O può essere che anche i bambini colgano, a modo loro, certe sfumature di un vivere diverso. Certo è, come le ho detto, che pure vivendo a Pontremoli a scuola bisognerebbe andarci lo stesso e non sarebbe sempre vacanza. Come a dire, traslando il discorso a noi grandi, che sarebbe un grosso errore idealizzare troppo la vita rurale.
È quello che fa, all’inizio del film di Milani, il maestro interpretato da Albanese, che arriva in mezzo alla neve con le scarpe sbagliate e patisce il freddo perché non sa accendere la stufa. Ed è quello che, probabilmente, accadrebbe a tanti - me compresa - che decidessero di avventurarsi in un cambio vita basato su una visione “cittadina” della vita montana e dei paesi interni. Nel film c’è un dialogo molto bello tra il maestro e un papà del paese che spiega benissimo quanto la “restanza” abbia davvero poco a che fare con il foliage che tanto ci piace instagrammare durante le gite mordi-e-fuggi del fine settimana.
Lo hanno capito a Torino, dove il Comune, in collaborazione con l’università, ha avviato tre anni fa una “Scuola di montagna”, un percorso di orientamento per chi sta valutando un trasferimento nelle terre alte. “La Scuola - ha raccontato il vicesindaco Jacopo Suppo a l’Altramontagna - nasce proprio come percorso di orientamento per aiutare a verificare se ci siano le condizioni effettive per cambiare vita. Spesso il desiderio di trasferirsi nelle terre alte nasce da esperienze legate al tempo libero, occorre tradurle in percorsi concreti e soprattutto in professioni che siano utili alla montagna”.
Adattamento, consapevolezza, investimenti
È quello che mi raccontava, in un’intervista di qualche mese fa, anche Franco Faggiani, scrittore che alla montagna ha dedicato tutta la sua opera di narratore:
“Servono prudenza e consapevolezza. Un conto è frequentare la montagna ogni tanto, un conto è abitare una casa, una comunità. Da cittadini abbiamo una visione molto idilliaca: la bella pista da sci, il laghetto, le mucche con la pezzatura giusta che fanno da sfondo, il cielo blu. Un’idea da cartolina, ma la montagna è molto di più. È la nube che in autunno ti si appollaia sulla casa e per due mesi non se ne va, è il freddo, il disagio, la strada non percorribile, la nebbia che ti fa perdere nel bosco – per non dire delle slavine, del ghiaccio, dei pericoli. È la solitudine. Cose alle quali non siamo abituati quando viviamo in città. Vanno ricreati il tessuto sociale, la comunità. […] Serve adattamento, consapevolezza dei propri mezzi, serve accontentarsi di quel che c’è. E imparare a ‘fare’. […] Io - mi diceva Faggiani - sono per il ritorno nelle terre alte, in collina, nei posti dimenticati. Ci sono tante storie di ragazzi che tornano, aprono attività locali, riportano vita culturale e socialità, ma sono fenomeni che vanno governati”.
Forse idealizzare un po’ serve
Insomma, come sempre, è tutto molto più complesso di quel pensiero che, contemplando un bel panorama naturale, ti fa dire: “Oh, che bello sarebbe vivere qui!”. Inoltre, più approfondisco, più mi sembra che la questione sconti un rischio di idealizzazione davvero molto alto, che “il mondo a parte”, visto dalla metropoli, sia difficilmente intellegibile nella sua essenza profonda.
Però, c’è una quota di idealità - dai risvolti molto concreti lì dove riesce a farsi progetto - che, studiando questi temi, ho colto in diverse voci di chi, invece, le aree interne, montane, marginali le vive, le conosce bene, le analizza da tempo. Ed è l’idea che, investendo sui servizi, sulla scuola, sulla rete sociale del “villaggio”, questi luoghi possano diventare davvero una sorta di laboratorio sociale e di comunità per quel vivere diverso che in tanti stiamo cercando.
Ed eccoci arrivati alla fine anche di questo numero. Questa settimana, i consigli di cose da vedere e leggere sono già disseminati qui e là nel testo quindi non mi dilungo oltre. Però, se conosci storie di progetti che nei paesi hanno ridato vita al “villaggio”, di scuole che resistono nonostante le difficoltà, di persone che sono tornate a vivere nei piccoli centri lasciando la città, se tu stai pensando di farlo, scrivimi: è davvero un tema che mi interessa molto.
Prima di salutarti, un appuntamento: oggi (lunedì 8 aprile, alle 13) sul profilo Instagram di @GiovaniGenitori faccio una chiacchierata con l’ostetrica Alessandra Bellasio: parliamo delle prime settimane di vita dei bambini, di quello che succede quando si torna a casa dopo il parto, di cose pratiche come allattamento e sonno, ma anche di paure, aspettative, senso di inadeguatezza. La diretta rimarrà poi salvata nel feed del profilo di GG quindi, se la perdi e ti interessa, potrai recuperarla da lì.
Grazie, come sempre, per aver letto fino a qui: ci sentiamo tra due settimane 🧡
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.
Sono stata a Pontremoli anni fa e ti ringrazio di avermela fatto rivivere.
Ricordo di aver assaggiato anche la "carsenta" e di essere rimasta colpita da queste loro specialità particolarmente caratterizzanti, come i testaroli e gli amor che hai citato.
Mi fa molto piacere aver rievocato un ricordo piacevole ☺️ Pontremoli è davvero un gioiellino, anche dal punto di vista culinario!