#19 Ci vuole un villaggio I Papà in fascia
Una serie di foto, un po' di numeri e un romanzo per parlare di paternità e congedi (+ tre articoli su cui riflettere)
Ciao!
Come è andato questo settembre? Qui abbiamo affrontato grandi cambiamenti - te ne parlerò prima o poi - e i primi malanni di stagione. Ora puntiamo dritti a ottobre, che è il mio mese del cuore, perché i suoi colori sono i miei e perché festeggiamo il compleanno della piccola di casa e, a ruota, anche il mio 🍂
Prima, però, c’è ancora un giorno, cioè oggi, il 30 settembre: nel pomeriggio alle 17, al Salone del Gusto di Torino, modero un bellissimo incontro dedicato all’educazione alimentare e al gusto dei bambini in cui parleremo anche di salute e diritti (l’incontro sarà in diretta anche qui, sul profilo IG di Giovani Genitori, se vuoi seguirlo a distanza).
Fatti gli annunci, passiamo al tema di questo numero: parliamo di paternità e, nello specifico, di congedi parentali. Il tema è vasto vastissimo: proviamo ad affrontarne un pezzetto seguendo un filo rosso che parte da una foto, passa per alcuni numeri e approda nel mondo speciale di un romanzo immaginifico.
Partiamo!
La foto
La foto - o meglio la serie di foto - è quella che avrai probabilmente già visto girare sui social: la scorsa settimana Londra si è svegliata così, con le statue della città dedicate agli uomini inglesi più illustri “vestite” di fascia porta-bebè e bambolotto.
Si tratta della protesta con la quale i neo-papà inglesi dell’associazione “Dad shift” hanno chiesto al Governo di rivedere la legge sui congedi di paternità della Gran Bretagna, che è una delle più restrittive d’Europa (due sole settimane di congedo retribuito con un’indennità pari a poco più di 200 euro a settimana).
È una campagna che mi è piaciuta moltissimo, anche perché mi ha ricordato un pezzo della mia vita passata. Dopo aver portato in fascia mia figlia, anni fa ho seguito un corso sul babywearing per insegnare agli altri genitori come avvicinarsi a questa pratica e usare le fasce porta-bebè. Mi ricordo che al corso ci spiegarono perché il babywearing poteva rivelarsi cosa preziosa anche per i papà: favorendo il contatto “pelle a pelle” con il neonato, rappresenta un ottimo modo per entrare in relazione e favorire quella conoscenza reciproca che, nel caso delle mamme, tende a passare per vie più “naturali”. Su questo “naturali”, però, c’è da intendersi bene. La pediatra Carla Tomasini, nel suo libro “Genitori strada facendo”, spiega:
“È indiscutibile il fatto che il corpo della donna subisca dei forti cambiamenti fisici e ormonali, ma recentemente è emerso che anche l'uomo, se reso partecipe dell'accudimento, subisce modifiche tali nei propri neurotrasmettitori da metterlo in condizione di garantire cura adeguata al proprio bambino. Non manca nulla ai padri per offrire lo stesso tipo di accoglimento garantito dalle madri, basta dargliene l'occasione, anche se la nostra società non è preparata per dare loro questo spazio e per riconoscere l'importanza di questa collaborazione, sovraccaricando le donne lavoratrici di un doppio fardello e sottraendo ai padri la possibilità di conoscere altrettanto bene il loro bambino e imparare a gestirlo quanto una madre. (…) Una madre non conosce il suo figlio a priori, ma è la migliore osservatrice di quel bambino, passa 24 ore con lui, risponde costantemente ai suoi bisogni. (…) Ci si aspetta che sappia tutto, alla fine lo saprà, ma per esperienza, non per scienza infusa. Allo stesso modo, un padre presente può conoscere altrettanto bene il proprio bambino e rispondere adeguatamente ai suoi bisogni e, solo se la società lo comprendesse, gli offrirebbe un congedo di paternità dignitoso per tale ruolo”.
La scienza ci sta dicendo, dunque, che la cura non ha a che fare solo con la “natura” o il cosiddetto “istinto materno”, ma che è questione di esperienza, pratica, conoscenza. Come hanno spiegato bene anche i papà inglesi nel raccontare la loro iniziativa, poter passare da subito del tempo insieme crea le condizioni perché entrambi i genitori possano diventare parimenti figure di riferimento, con effetti positivi dimostrati sia sul benessere e lo sviluppo psico-fisico dei bambini che sull’avvio di una genitorialità davvero condivisa. Dovrebbe bastare questo a spiegare perché allungare il congedo di paternità obbligatorio (attualmente qui da noi pari a 10 giorni), cosa per la quale ci si batte da anni anche in Italia.
Un po’ di numeri
Il punto, tuttavia, è che il tema dei congedi si inserisce all’interno di un quadro più ampio e tocca aspetti più profondi di quelli meramente normativi, che hanno a che fare con i ruoli di genere e il nostro rapporto come società con il concetto di cura e con il lavoro. Per capirlo, proviamo a partire da alcuni numeri, che sono sono quelli contenuti in “Genitori alla pari. Tempo, lavoro, libertà”, l’ottimo libro di Alessandra Minello e Tommaso Nannicini dedicato alla genitorialità condivisa pubblicato qualche mese fa da Feltrinelli (un libro del quale sicuramente torneremo a parlare perché è densissimo: il “bigino” perfetto sui grandi temi della genitorialità di oggi).
Nel capitolo dedicato alla paternità, i due autori raccontano come siamo messi in Italia in fatto di congedi di paternità evidenziando come negli ultimi anni l’uso dei congedi da parte dei padri - nei limiti posti dalle leggi attuali - sia cresciuto in modo significativo evidenziando una maggior consapevolezza. Ad esempio, per quanto riguarda quelli parentali (quelli facoltativi, per intenderci), nel 2021 il numero di padri che ne ha usufruito è stato quasi il doppio del 2013 (oggi sono circa 60mila) . Tuttavia, in media, i padri prendono circa un mese di congedo, che è la metà di quello di cui usufruiscono mediamente le mamme. Questo perché, nonostante le cose stiano cambiando, continua a essere diversa la cornice dentro la quale madri e padri si muovono rispetto agli impegni di cura.
Come spiega benissimo questo studio, ed è evidente nell’esperienza comune dei genitori, mentre infatti la maternità diventa “il veicolo della disparità” rispetto al mercato del lavoro, al contrario la paternità “rende più forte l’attaccamento al lavoro” stesso. Lo dimostra un dato su tutti, quello relativo alle dimissioni volontarie (di cui già diverse volte abbiamo parlato anche qui): circa il 73% delle oltre 61mila dimissioni volontarie richieste nel 2022 da genitori con figli fino a 3 anni ha riguardato donne, che hanno indicato come motivazione principale la difficoltà di conciliazione tra il lavoro e gli impegni di cura dei figli. Le dimissioni volontarie dei padri, seppur aumentate anch’esse, sono invece imputabili alle difficoltà di conciliazione solo nel 7% dei casi: in tutti gli altri, i papà si sono dimessi per accettare proposte di lavoro migliorative (anche in funzione del fatto di essere diventati padri). Scrivono Minello e Nannacini:
“Invece la realtà è che oggi l'unico ambito, o quasi, in cui la paternità pare dare dei superpoteri è quello lavorativo. Le analisi ONU dimostrano a livello globale il vantaggio dei padri rispetto ai non padri lungo la carriera lavorativa e dati americani confermano questa tendenza. Se per le madri avere figli riduce il tempo e l'energia da dedicare al lavoro, per gli uomini invece aumenta la motivazione a provvedere alla famiglia. Poiché lo sforzo lavorativo dei padri ne aumenta la produttività, la paternità può far crescere i guadagni degli uomini anche a parità di tempo dedicato al lavoro rispetto ai non padri. Visto l'obiettivo, poi, per loro è maggiore la propensione a scegliere luoghi di lavoro più lontani da casa in cambio di stipendi maggiori e riducendo ulteriormente gli spazi per la cura. La paternità, infine, come già accennato, è un segnale anche per i datori di lavoro: così come esiste una discriminazione negativa nei confronti delle madri in direzione opposta va quella nei confronti dei padri, sui quali ricade lo stigma positivo dell'alta produttività e del bisogno di provvedere alla famiglia”.
Ovvero, anche lì dove i papà vorrebbero essere più presenti nella cura dei figli e provano a farlo usufruendo, per esempio, dei congedi parentali, rimangono però spesso intrappolati, per struttura del mondo del lavoro e pressioni di natura sociale, culturale ed economica, nella figura del breadwinner, di colui che deve “portare a casa la pagnotta”, per intenderci. Il loro modo di prendersi cura dei figli, che corrisponda o meno ai propri desideri, rimane lavorare - anche di più, anche più lontano da casa - per poter guadagnare di più e contribuire in questo modo al benessere della famiglia.
Ecco un altro motivo per il quale riscrivere le norme sui congedi genitoriali, rendendoli perfettamente paritari e non trasferibili: creare le condizioni perché madri e padri abbiano, rispetto alla cura e al lavoro, medesimi diritti e opportunità di scelta. Per le madri potrebbe voler dire non rinunciare all’uno in nome dell’altra - o non fare salti mortali per tenere tutto insieme. Per i padri, la possibilità di vivere una genitorialità piena.
C’è, infine, un ultimo punto. I due autori del libro sottolineano come, secondo dati Istat del 2018, la quota di madri e padri con figli fino a 15 anni che lamentano problemi di conciliazione, a causa soprattutto dell’orario di lavoro lungo, sia ormai pressoché identica (pari a circa il 35%). A cambiare, ancora una volta, è come viene affrontato il problema: le madri risolvono riducendo l’orario di lavoro privilegiando così la cura, i padri cambiando lavoro, possibilmente per guadagnare di più:
“La struttura del mondo del lavoro, altamente competitiva, tutta orientata alla performance, produce e diffonde standard di comportamento aderenti allo status sociale del lavoratore ideale (…). Standard che mal coesistono con i tentativi di essere più presenti nella vita dei figli. I turni lavorativi dei padri, che meno delle madri accedono a occupazioni a orario ridotto, poco si adattano agli orari scolastici e alle attività pomeridiane dei figli. Sono tutti elementi che, anche di fronte a una volontà di presenza, la ostacolano e vanno tenuti in conto per riscrivere il presente”.
Al di là della questione dei congedi parentali, cioè, è la cultura stessa del lavoro nella quale siamo immersi tutti a dover essere ripensata: in questo senso, ogni iniziativa che va nella direzione di un approccio meno performativo, più centrato sulla flessibilità e sul riconoscimento dei bisogni delle persone, è fondamentale per pensare e vivere la paternità-maternità-genitorialità in modo diverso.
Un libro
Un altro modo per farlo - pensare e mettere in atto la genitorialità in modi altri - è raccontarla attraverso le infinite storie in cui può realizzarsi, al di là delle narrazioni dominanti. Per questo, voglio parlarti di un romanzo speciale, che ho letto in estate e che racconta proprio del rapporto di un papà con suo figlio. Si intitola “Il cielo per ultimo” e porta la firma di Michele Cecchini, insegnante di lettere a scrittore. È la storia speciale, e insieme normalissima, di Emilio Cacini, prof. di arte alle medie, e di suo figlio Pitore, un bambino che parla una lingua tutta sua perché affetto da una forma importante di disfasia, ambientata in un quartiere di Livorno, Ardenza Mare, immaginifico e poetico. Soldo di Cacio - così nel quartiere chiamano il Cacini - e Pitore sono circondati da personaggi strambi e picareschi, di ieri e di oggi, eppure profondamente reali nei tratti umani che ciascuno esprime attraverso la propria straordinarietà.
È un romanzo, questo di Michele Cecchini, che tra le righe della storia principale dice tanto su tante cose diverse: riflette sul valore delle parole e sui meccanismi della comunicazione, allarga i confini della “famiglia” alla comunità, indica la gentilezza come un modo possibile di stare al mondo e di trattare se stessi, le proprie debolezze e quelle degli altri. E racconta di un papà che - da solo, senza una mamma - fa il papà, che ci prova, come fanno tutti - con una quota di tenerezza, in questo caso, che il Cacini ti verrebbe proprio voglia di abbracciarlo ogni tanto.
Confesso che, arrivata alla fine, ho fatto molta fatica a leggere le ultime quattro pagine perché gli occhi mi si sono all’improvviso riempiti di lacrime e mi sono commossa come non mi succedeva da tempo con un romanzo. Potrebbe essere, questo di Emilio Cacini e suo figlio Pitore, un racconto che parla di quelli che spesso vengono definiti “ultimi”, ma è la citazione che porta con sé il titolo del romanzo a svelare la chiave di lettura della storia, anche di paternità, del protagonista: “Chi guarda il cielo per ultimo - scriveva in una delle sue poesie più belle Gianni Rodari - non lo trova meno splendente”.
Forse, trovare un briciolo di quello splendore tra le tante storture delle nostre vite individuali e collettive non è sempre facile come riesce a fare fino alla fine il Cacini, ma di storie che ci mostrino che è possibile farlo, anche quando da genitori sembra complicatissimo, abbiamo tutti un grande bisogno.
Cose da leggere
E ora, prima di salutarci, ti segnalo tre cose interessanti che ho letto questa settimana e che mi hanno fatto riflettere:
A proposito ancora di genitorialità e lavoro, sono usciti proprio questa settimana gli ultimi dati Inps che confermano quanto dicevamo poco sopra a proposito della child penalty, ovvero dello svantaggio delle madri nel mondo del lavoro. Su questo, ti consiglio di leggere la testimonianza di Lia Calloni a “la Repubblica”: è la storia personale di una mamma (ma potrebbe essere quelle di moltissime altri madri) ed è interessante perché sposta l’asticella del discorso un po’ più in là: non è solo questione di flessibilità e di condizioni di lavoro più paritarie, è che dovremmo lavorare - tutti - meno: lavoriamo troppo e questo non fa bene al benessere dei genitori, dei bambini, della collettività tutta.
Non so se è capitato anche a te, ma ultimamente con altri genitori più volte ci siamo trovati a commentare la sensazione che abbiamo che i bambini siano sempre più mal tollerati nei diversi contesti della vita sociale, dal ristorante al treno, persino in spiaggia. Ecco, nella newsletter di questa settimana di
intitolata “L’Italia che odia i bambini” ho trovato finalmente una lettura della cosa nella quale mi ritrovo perfettamente, anche perché riconduce questo sentimento a una generale insofferenza per l’altro che mi pare evidente non riguardi solamente i bambini:“Mi spaventa questa intolleranza. Penso che abbia molte radici: una mancanza di esperienza diretta della genitorialità per chi non ha figli, una cultura del giudizio amplificata dai social, una generale mancanza di empatia. Ci leggo anche una certa paura del cambiamento e una strana e per me inspiegabile nostalgia per un'educazione rigida e autoritaria. Stiamo provando a crescere questa generazione con un'attenzione maggiore ai bisogni emotivi. Il genitore medio, leggermente sotto pressione e in perenne ansia da prestazione, studia sette manuali di pedagogia e psicologia dello sviluppo prima ancora della nascita di un figlio. Ma questo, a quanto pare, non piace a chi preferiva i modelli educativi vecchio stampo”.
Hai anche tu questa impressione? E cosa ne pensi? Scrivimi che proviamo a ragionarci insieme:
La scorsa settimana ho letto e riletto e sottolineato a più riprese l’articolo di apertura del numero di “Internazionale” dedicato alla solitudine. È un pezzo uscito su “The New York Times” che parla della situazione americana, ma l’analisi mi pare sia valida a prescindere. Ho trovato molto interessanti la spiegazione sui meccanismi biologici collegati alla solitudine, la riflessione sulle “relazioni significative” oggi sempre più sgretolate, il richiamo alla vita di comunità come antidoto e la prospettiva “adattiva” in cui è posta la questione, con l’invito a trovare nuovi modi per ritrovarci. Mi hanno colpito, però, soprattutto le domande fatte dagli esperti americani per sondare la diffusione della solitudine tra le persone: non solo “Quanto ti senti solo?”, ma anche “Ci sono persone della tua vita che ti chiedono cosa ne pensi di questioni che sono importanti per te?” e anche “Qualcuno si è soffermato per più di qualche minuto a chiederti come stai, dandoti l’impressione di essere sinceramente interessato?”.
In effetti, quante volte qualcuno si interessa a noi in questo modo e quante volte lo facciamo noi con gli altri?
Eccoci giunti ai saluti 😊 Prima, però, ti ricordo che se la newsletter ti è piaciuta puoi inoltrarla a chi vuoi dal bottone qui sotto. Nelle ultime settimane, siamo ogni giorno di più in questo villaggio, è bellissimo e più siamo più bello è 🧡
Noi ci leggiamo tra due o forse tre settimane, questa volta. Se dovessi tardare è perché sarò un po’ in giro per cose di lavoro nei prossimi giorni (e anche perché dovrò brindare ai miei 40+). Ma poi torno!
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.
Grazie, tanti spunti, anche lettererari, molto interessanti! Un’altra “tragedia” di gestione genitoriale sono le improvvise chiamate da asili e scuole per gli allontanamenti da malattia. Scatta nel genitore il panico da abbandono del lavoro a favore dei doveri genitoriali con sensi di colpa che non dovrebbero esistere. Spesso ci dimentichiamo di essere padri e madri in primis e poi lavoratori. Per quanto la somma da tirare a fine mese non deponga a questa tesi.
Grazie a te, Luca, per aver letto la newsletter e per questo commento... quanto hai ragione! La gestione dei bambini quando stanno poco bene è una delle situazioni più "critiche" di conciliazione. È uno di quei casi in cui emerge bene sia la diversità di genere nell'approccio alla cura (spesso per i papà è più difficile che per le mamme staccarsi proprio per lo stigma negativo che ancora ricada su di loro negli ambienti di lavoro in casi come questi) sia quanto sia importante la flessibilità lavorativa per poter parlare di una genitorialità davvero sostenibile per tutte le figure genitoriali. Spingo il discorso un po' più in là: non solo per chi è genitore, ma per tutti. Quante volte anche chi non ha figli, ma magari ha altre responsabilità da caregiver rispetto, per esempio, a genitori anziani, può aver bisogno di conciliare il lavoro con la cura in modo meno rigido? È per questo motivo che credo che la battaglia per la flessibilità lavorativa dei genitori e per un diverso modo di intendere la cura possa fare da apripista per una conciliazione più sana per tutti.