#23 Ci vuole un villaggio I Mentre tutto brucia, fare figli è un gesto irresponsabile?
Un dato, un’analisi e una proposta per parlare di genitorialità e della scelta di avere figli in tempi di crisi climatica
Ciao!
Io sono Silvia De Bernardin e questa è “Ci vuole un villaggio”, la newsletter che racconta il cantiere del nuovo villaggio, quello che ancora oggi serve per crescere bambine e bambini.
Buon anno! Come stai? Qui la prima settimana lavorativa del 2025 si è fatta sentire, ma pare perdurare l’effetto benefico di un po’ di vacanza natalizia quindi, per ora, direi bene così. Inizio l’anno senza buoni propositi che possano dirsi tali, ma con qualche desiderio, questo sì. Vediamo se riusciamo a dargli forma, e corpo e sostanza.
Ora, però, partiamo!
Avere figli in tempi di crisi climatica
La consapevolezza da cui è partito il progetto di questa newsletter è che le vite che facciamo siano estremamente complesse. Per mia fortuna (o maledizione), da giornalista mi occupo ogni giorno di tanti temi diversi: spesso la mia testa fatica a tenerli insieme tutti, ma questo spazio è nato anche con l’idea di provare ad accostarli, evidenziando connessioni e punti di contatto. Usare la genitorialità come lente di ingrandimento e filo rosso, insieme, per tentare di restituire un po’ di quella complessità.
Ecco, nei giorni scorsi, mentre vedevo le immagini di Los Angeles in fiamme, si è attivata una di quelle connessioni: che legame c’è tra l’essere genitori e la crisi climatica nella quale siamo immersi? Fare figli è un gesto irresponsabile mentre tutto brucia? Mettere al mondo bambini è un appagamento egoista a un desiderio personale che impatta ulteriormente sulla salute del Pianeta? E se i figli li abbiamo già?
È un tema enorme, che non si esaurirà nelle poche righe che troverai qui sotto. Ma proviamo a mettere in fila un dato, un’analisi e una proposta.
Un dato. Come scrivevo già nell’ultima newsletter di fine anno parlando dell’inchiesta del settimanale “Vita” sulla natalità in Italia, per noi Millennials, forse, questo non è un tema, ma per i più giovani lo è eccome. Se hai modo di frequentare ventenni probabilmente te ne sei accorto sentendoli parlare: molti di loro se lo chiedono con grande lucidità se ha senso avere figli in un mondo dalle prospettive, non solamente climatiche, tanto incerte e preoccupanti. Lo sostengono anche i numeri, come quelli di uno studio pubblicato nel 2021 su “Lancet Planet Health” relativo all’ecoansia tra i più giovani, che confermano le forti preoccupazioni climatiche dei ragazzi e delle ragazze e indicano tra le conseguenze anche i loro dubbi rispetto alla procreazione.
Non è una cosa che dovrebbe sorprendere: la consapevolezza delle responsabilità individuali dell’impronta sul pianeta sta aumentando così come quella rispetto alla genitorialità intesa sempre più come scelta individuale e ponderata e meno come “destino sociale”: era inevitabile che le due cose finissero per convergere generando leciti interrogativi sull’opportunità di mettere al mondo, di questi tempi, altri esseri umani.
Tuttavia, la questione riguarda anche chi, come la sottoscritta, una scelta l’ha già fatta - e quando l’ha fatta, a suo tempo, non si è posta il problema. Oggi, però, mi chiedo sempre più spesso in che mondo vivrà mia figlia e come orientare sin da ora le nostre scelte di consumo e di vita, non solo per impattare meno, ma anche per prepararla a un futuro “caldo” che temo potrà essere anche molto diverso dal presente che già stiamo vivendo.
Un’analisi. Il riferimento allo studio su “Lancet” l’ho trovato in un numero di dicembre della newsletter
(alla quale ti consiglio di iscriverti se ti interessa la questione climatica), scritta da Chiara Comerci, che è una dottoressa in Psicologia Clinica e attivista che collabora con l’Associazione Italiana Ansia da Cambiamento Climatico nella ricerca sull’ecoansia e sulla preoccupazione ambientale. La newsletter (che puoi leggere per intero qui) si intitola “È giusto mettere al mondo dei figli durante la crisi climatica?” e riporta numerosi studi e articoli che negli ultimi anni hanno alimentato il dibattito sul tema sottolineando come il rapporto tra scelte riproduttive e crisi climatica si sviluppi principalmente intorno a due questioni: la paura di mettere al mondo figli che saranno esposti agli effetti del cambiamento climatico e il dubbio etico legato a quanto l’aumento della popolazione possa ulteriormente aggravare la crisi.Ma può essere il “non fare figli” una soluzione per affrontare la crisi climatica? Non generare può essere messo sullo stesso piano, come scelta etica, dello smettere di mangiare carne, usare meno automobile e aereo, non comprare fast-fashion? Sono domande alle quali ciascuno può dare una propria risposta. Personalmente, sono molto d’accordo con quello che scrive Chiara Comerci:
“Personalmente, credo che interferire nelle scelte riproduttive sia poco etico: il desiderio di avere una famiglia è spesso guidato da emozioni profonde e valori personali, piuttosto che da dati scientifici. Non giudico chi sceglie di avere figli; tuttavia, auspico che queste decisioni siano consapevoli e intenzionali, riflettendo il desiderio di contribuire a una comunità resiliente. Invece di domandarci se sia giusto avere figli, dovremmo iniziare a discutere come crescere i bambini in un'era segnata dalla crisi climatica. Fare figli non deve diventare una scelta etica, ma dovrebbe diventare una scelta etica il modo in cui si decide di crescerli. È fondamentale connetterci emotivamente alle ragioni per cui desideriamo avere figli, tenendo conto dei possibili scenari futuri e chiedendoci se siamo pronte e pronti a guidarli attraverso queste sfide. Dobbiamo superare il positivismo tossico dicendo ai bambini che ‘andrà tutto bene’ (come spesso molti genitori e educatori fanno) e affrontare la realtà che i nostri figli vivranno in un mondo complesso e incerto. È cruciale prepararli a costruire resilienza psicologica, fisica e sociale”.
La soluzione che suggerisce Comerci ha a che fare, guarda un po’, proprio con il concetto di “villaggio” e di un’idea diversa di famiglia:
“La crisi climatica ci obbliga di ripensare i modelli familiari tradizionali. Donna Haraway parlava di ‘fare parentele e non figli’ (make kin not babies), enfatizzando l’importanza di costruire reti sociali che vadano oltre i legami biologici. Questo slogan - scrive ancora - ci invita a spostare l'attenzione dall'aumento della popolazione alla costruzione di relazioni significative e comunità che possano sostenere la vita su questo pianeta sempre più fragile. In un'epoca in cui le risorse del pianeta sono sotto pressione e le preoccupazioni ambientali crescono, è fondamentale ripensare le nostre aspirazioni familiari in termini di legami, sostegno reciproco e responsabilità verso le generazioni future. Esplorare forme di famiglia inclusive come l’adozione o le comunità allargate, può rappresentare una scelta ecologicamente consapevole, ma anche più in linea con un mondo che richiede una connessione profonda con la comunità e l’ambiente”.
D’altra parte, mi viene da aggiungere, in prossimo futuro fatto di famiglie nucleari sempre più piccole e vecchie - come meno fratelli e sorelle, meno cugini, zii e nipoti - puntare sulle relazioni significative altre sarà fondamentale per affrontare qualsiasi sfida sociale ed economica, oltre che climatica.
Un progetto. Dunque, non tanto domandarsi se fare figli, ma iniziare a ragionare su come crescerli e prepararli alla resilienza, i suggerimenti. A questo proposito, prima di Natale è stato pubblicato il Libro bianco degli Stati Generali dell’Azione per il Clima, un progetto nato nel 2023 per creare uno spazio di collaborazione tra realtà impegnate a diverso titolo nell’affrontare la crisi climatica e renderne più forte l’azione. L’iniziativa ha coinvolto oltre 80 organizzazioni e più di 200 tra istituzioni, associazioni, esperti di politiche climatiche, attivisti e singoli cittadini. Il Libro Bianco, frutto di questo lavoro di confronto, contiene 33 proposte, divise in più capitoli tematici, per “tracciare una strada concreta per la transizione ecologica del nostro Paese al 2030”. Un capitolo è dedicato a Educazione e Formazione e contiene la proposta “per una riforma dei curricula scolastici nel senso dell’ecologia integrale”, per “formare cittadini consapevoli e responsabili con programmi scolastici trasversali tra ecologia, tecnologia, economia e impatto sociale”. Credo che potrebbe essere un ottimo punto di partenza, a proposito di formazione alla resilienza climatica. Purtroppo, non credo che il tema sarà presto all’ordine del giorno per i nostri attuali decisori politici, ma questo non significa non chiederlo o non attivarsi sul territorio per promuovere iniziative che vadano in questa direzione.
Per chiudere, sul tema clima-figli, come vedi, non ho grandi risposte, però, se ti va, mi piacerebbe sapere come la pensi, come la vivi, che scelte stai facendo, se conosci progetti che possano aiutarci ad affrontare la crisi ecologica guardando al domani dei più piccoli. Se stai leggendo questa newsletter, probabilmente hai figli, lavori a stretto contatto con le famiglie o hai nella tua vita, a diverso titolo, bambini e ragazzi ai quali tieni: qualcosa dobbiamo fare oltre a preoccuparci e, forse, non è troppo tardi.
Un libro
Cambiando un po’ argomento, prima di salutarci, ci tengo a parlarti del libro che mi ha fatto compagnia durante le feste, che mi è stato consigliato da un amico ed è stato un ottimo suggerimento: Il bar delle grandi speranze di J.R. Moehringer. L’autore è un giornalista americano, premio Pulitzer, che negli ultimi anni ha contribuito con la sua penna al successo di due famose biografie, Open, di Andre Agassi, e Spare. Il minore, del principe Harry. Questo, però, è il suo primo romanzo, del 2005, nel quale racconta la sua, di vita, dall’infanzia alla soglia dell’età adulta. È la storia di un ragazzino cresciuto da una madre single e senza molte possibilità a Manhasset, Long Island, alle porte di New York, e del “bar”, quello nel quale lavora lo zio di J.R., che per il ragazzo diventerà, con la sua varia umanità al maschile, luogo di formazione e crescita umana.
Il bar delle grandi speranze è un grande romanzo “americano”, nelle ambientazioni, nella caratterizzazione dei personaggi, nei richiami letterari - da Hemingway a Fitzgerald - che fanno da sfondo e sui quali il giovane aspirante scrittore J.R. si forma, nel “sogno” che anima tutto il racconto. È, però, anche un romanzo sui legami familiari e sulla ricerca perigliosa di sé in mezzo, attraverso e nonostante essi. Sui punti di riferimento di cui ciascuno di noi ha bisogno per crescere. Sulle famiglie putative - che poco hanno a che fare con i legami di sangue - che ci scegliamo o che ci capitano. E anche sulla scrittura.
Tre sono i personaggi, tra i tantissimi che riempiono le pagine di questo romanzo, che più mi sono rimasti nel cuore: Bill e Bud, i due strambi librai che danno un lavoro a J.R. quando è un ragazzino, lo avviano alla letteratura e alla musica e lo mettono sulla strada per Yale, non prima di averlo ammonito su due grandi motori e freni della vita, la paura e la disillusione. E poi, la madre del protagonista - alla quale il romanzo è dedicato -, donna che sa resistere, ma anche quando è il momento di andare. La “geniale mentitrice” dietro le cui bugie non si nasconde solamente un indefesso istinto di protezione materno, ma anche la consapevolezza che ogni tanto è necessario “mentire a noi stessi, dirci che siamo forti e capaci, che la vita è bella e il duro lavoro avrà la sua ricompensa, e poi provare a trasformare le nostre bugie in realtà”. Colei che - scrive Moehringer nei ringraziamenti - ogni volta che lui ha smarrito la strada, è stata il suo faro “riportandomi alle parole, alle semplici parole”.
Ecco, se cerchi un romanzo traboccante di umanità, nel quale le parole, le storie e la letteratura siano protagonisti tanto quanto i luoghi e le persone, lo hai trovato.
Bene, questo primo numero dell’anno è andato: spero che ce ne saranno numerosi altri. Io continuerò a scrivere, tu non smettere di leggere e, se trovi questa newsletter interessante, dammi una mano a farla girare: puoi inoltrarla a chi vuoi dal bottone qui sotto 🧡
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.
Grazie davvero per questo numero, anche io condivido molto il ragionamento di Chiara Comerci, penso sia fondamentale dare ai nostri figli e alle nostre figlie strumenti adeguati per vivere il mondo che verrà (e che in parte sperimentiamo già), senza falsi buonismi o positività tossica. Per questo penso che il grande lavoro da fare sia innanzitutto su noi genitori, per imparare a stare nella complessità al meglio delle nostre possibilità. Il libro che consigli, poi, è bellissimo: mi hai fatto venire voglia di rileggerlo, grazie
Grazie di aver sollevato questo argomento. Io sono una millenial ma molto sensibile al tema e di domande me ne sono fatta eccome, anzi sono stata spesso velatamente giudicata per aver avuto tre figli. Sul terzo ci siamo interrogati moltissimo, eppure soprattutto io lo desideravo così tanto che alla fine ha vinto il desiderio. Devo dire che però, pur essendo sempre stata molto sensibile alle problematiche ambientali (da quando sono diventata vegetariana a 11 anni fino alle scelte recenti in materia di vestiario), mi sento in colpa e non più in diritto di esprimere la mia opinione, per timore che mi venga detto (come mi è effettivamente stato detto): "Eh ma tu hai tre figli non puoi parlare"