#24 Ci vuole un villaggio I L'allattamento è una "catena calda"
E anche una lente dalla quale osservare molte altre questioni, che hanno a che fare con il divario sociale, il lavoro, il controllo del corpo delle donne, come ci racconta l'antropologa Martina Riina
Ciao!
Io sono Silvia De Bernardin e questa è “Ci vuole un villaggio”, la newsletter che racconta il cantiere del nuovo villaggio, quello che ancora oggi serve per crescere bambine e bambini.
Premessa: lo so, l’allattamento è un argomento “triggerante”, ma in questa newsletter non leggerai dell’importanza di allattare al seno né di come farlo con successo (che poi, che significa: con successo?). Ovvero, di quello di cui si parla di solito a proposito di allattamento. Che tu abbia allattato sì, no, tanto, poco, con grande soddisfazione o con estrema fatica, che tu non ci abbia minimamente pensato, che non sia stato compito tuo farlo, che tu manco sia genitore e di allattamento non sappia niente: in ogni caso, dai una possibilità a questa numero della newsletter. Con l’antropologa e pedagogista Martina Riina, abbiamo provato ad allargare il discorso, a prendere la questione per leggerci, in controluce, altro.
Ovvero, che cosa la pratica dell’allattamento al seno può dirci di divario sociale e welfare, della presunta “naturalità” delle pratiche di accudimento, di salute, emancipazione, lavoro e, ovviamente, del controllo sul corpo delle donne?
Riina sta concludendo un dottorato di ricerca che tocca tutti questi punti. Ne avevamo parlato lo scorso settembre durante un incontro pubblico al Salone del Gusto di Torino. Poi, ci siamo risentite per approfondire il discorso ed ecco la lunga chiacchierata che ne è venuta fuori.
Dottoressa Riina, di cosa si occupa la sua ricerca?
La ricerca è nata all’interno di un dottorato in Food, Health and Longevity Studies al Dipartimento di Scienze della Salute dell'Università del Piemonte Orientale. Si focalizza sulla pratica dell’allattamento al seno indagato nei suoi aspetti socio-culturali, economici e politici, in particolare in contesti marginali e di disagio. È uno studio che parte da una lunga esperienza di lavoro con un’associazione di promozione sociale nella mia città, Palermo, nel quartiere di Borgo Vecchio, che ho raccontato anche nel libro L’erba tinta. È qui che, lavorando con madri giovanissime, alla loro prima gravidanza tra i 14 e i 19 anni, mi sono accorta che quasi nessuna di loro allattava al seno. Non solo: erano ragazze che, a loro, volta, non erano state allattate dalle proprie madri, come se nelle ultime tre generazioni la pratica dell’allattamento fosse scomparsa: un dato quasi controintuitivo rispetto all’immagine, un po’ stereotipata, della donna del Sud. Quello che osservavo era una differenza effettiva tra Nord Italia – dove si allatta di più – e Sud o, meglio, tra fasce della popolazione più agiate e benestanti e quelle più povere e marginali, che quantitativamente si concentrano maggiormente al Sud. Anche se allattare è una scelta personale, come tutte le scelte è condizionata dal contesto. Ecco, nella mia osservazione mi sembrava di intuire che ci fosse una connessione tra il non allattare al seno e aspetti di natura economica, politica e sociale, di relazione di potere tra i generi, di accesso ai servizi e all’informazione. Da qui, ho pensato che potesse essere interessante mettere a confronto due contesti diversi, quello più informale dei quartieri del Sud, a Palermo, e quello più strutturato delle aziende ospedaliere e dei consultori del Nord, a Novara.
E cosa è emerso?
Rispetto al rifiuto dell’allattamento da parte delle giovanissime madri di Palermo, per esempio, il fatto di vedere nell'allattamento un impegno eccessivo rispetto a quello che la loro vita travagliata consente. Il carattere di “esclusività” con il quale viene definito in ambito medico l’allattamento nei primi sei mesi di vita del bambino lo rende, di fatto, non sostenibile in contesti disagiati o di marginalità. Ciò che, invece, accomuna tutte le madri, a Sud come a Nord e in maniera trasversale alle classi sociali, è un senso di inadeguatezza diffuso, la percezione che il proprio corpo sia incapace di accudire. L’avere “poco latte”, il non averlo “buono” o non saperlo gestire fa parte di un leitmotiv che accomuna quasi tutti i racconti sulle esperienze di allattamento che ho raccolto.
Da dove nasce questo senso di inadeguatezza tanto comune?
Qui, più che una questione di classe, si tratta di una visione dell'allattamento al seno nella quale si scontrano, da un parte, tutta la retorica di presunta “naturalità” della pratiche di accudimento a cui siamo sottoposti oggi e, dall’altra, l’estrema medicalizzazione – di stampo patriarcale – sulla gestione delle funzioni del corpo femminile che avviene nei fatti. C’è una bellissima metafora che usa la femminista Adrienne Rich nel suo Nato di donna che racconta il passaggio “dalle mani di carne alle mani di ferro”, da quelle delle levatrici, cioè, alle mani del forcipe. Non è un caso che a Palermo esista una gerarchia molto forte, che riconosce l’autorità del ginecologo (maschio) rispetto all’ostetrica: è lui che “fa nascere i figli”, ma in passato non è mai stato così. È una visione che poi influisce sull’allattamento: se l’ostetrica non viene riconosciuta come figura professionale, chi è che poi sosterrà le donne nel puerperio? Certamente non il ginecologo, che non ne sa niente. Se manca l’investimento sulla figura dell'ostetrica, sull'assistenza all'allattamento, sugli spazi di gruppo e di discussione e di supporto alle neomadri, viene meno tutto ciò che renderebbe l'allattamento una pratica molto più gestibile e una scelta più serena e consapevole, privata di quel giudizio che incombe sempre e comunque sulle donne – al di là della legittima scelta di ciascuna di allattare oppure no.
Quello del supporto è un tema fondamentale, che ha a che fare anche con l’assetto del nostro sistema sanitario.
Sono tante le questioni che entrano in questo discorso: per me il tema dell'allattamento è un “foro” dal quale poterle osservare. Nella mia ricerca recupero la metafora della “catena calda”, usata per la prima volta nel 1994 dalla rivista “Lancet”. È un’immagine che ci dice che l’allattamento è una “catena”, con l’ambivalenza che essa comporta: la catena che da una parte costringe, tiene tutti legati e crea dipendenza e, dall’altra, è legame di costruzione della vita intorno all’accudimento – che non riguarda solamente “mamma e papà”, ma dovrebbe coinvolgere tutte le figure caregiver, dalla nonna all’amica alla zia fino all’ostetrica e al pediatra. Ed è warm, in inglese, cioè calda e avvolgente: un aggettivo che ci dice che l’allattamento richiede un supporto gentile, generoso, accogliente, che non sia l’atteggiamento prescrittivo che spesso caratterizza oggi l’accompagnamento alla madri, nel quale si confonde la conoscenza con l’informazione.
Cioè?
L’informazione è il totem all’ingresso del consultorio che ti dice perché allattare “fa bene” e come farlo, ma la conoscenza è una cosa molto più profonda, che si vive, si crea, si compartecipa, richiede empatia. La promozione dell’allattamento, come di qualsiasi altra pratica che interessa l'accudimento e la maternità, necessita di qualcosa di molto più ampio, concatenato, caloroso. Se oggi si vogliono aumentare i tassi di allattamento alla dimissione dall'ospedale, come chiede l’OMS, allora è necessario proporre delle pratiche accoglienti, che sappiano tenere conto delle condizioni di vita delle neomadri e del contesto sociale nel quale ciascuna vive.
Neomadri che, spesso, sono sole rispetto al carico di cura.
Se guardiamo al target delle donne istruite – quelle che hanno una laurea se non due, una casa, viaggiano, sono tendenzialmente “grandi” di età alla prima maternità – sono madri che sembrano vivere una grande solitudine, fisica e materiale, rispetto alle tematiche che comporta la “matrescienza”, ovvero il processo di ricostruzione identitaria dato dal diventare madre. Spesso è una solitudine dovuta al fatto di vivere la maternità lontano dalle famiglie e della reti sociali di origine. Laddove, però, esiste e la donna ha gli strumenti per accedervi, la presenza di un sistema di welfare può, in qualche modo, sopperire. In altri contesti, come spesso sono i Sud del mondo, invece, la rete familiare, amicale, di vicinato è molto più presente. Contemporaneamente, però, esiste una povertà di risorse e di immaginari che fa sì che ci sia una frattura che interrompe la trasmissione di saperi e pratiche di accudimento tra generazioni. Ecco perché, come ho potuto osservare a Palermo, pur essendoci reti familiari forti si assiste poi, su tutta una serie di pratiche che interessano il corpo della donna, a una forte medicalizzazione. Ci si affida completamente al dottore, come se la madre non sapesse più niente del proprio corpo e non lo sapessero neanche le altre donne intorno a lei. È anche così che si finisce per allattare di meno. In generale, quello che ho potuto osservare, a Palermo come a Novara, è il venir meno della valorizzazione dei saperi e dell’esperienza personale. Invece, bisogna comprendere che nei corpi ci vivono persone, che sono in grado di sapere che cosa dà valore alla propria vita e alla propria storia.
Che può essere anche: non allattare.
In alcuni casi allattare non fa bene. È inutile continuare a dire che il latte materno è l'elisir di lunga vita perché non è vero. Questo non significa non riconoscere i benefici fisiologici e psicologici dell’allattamento, lungamente studiati, ma il discorso sull’allattamento non può prescindere dalle condizioni di vita delle singole persone. Nei quartieri popolari, per esempio, in cui sono più forti i legami intergenerazionali e le madri possono contare sul fatto di lasciare il bambino alla madre piuttosto che alla suocera, l’allattamento artificiale rappresenta una forma di emancipazione e di svincolo rispetto al carico di cura. In altre situazioni l'allattamento al seno è solo motivo di stress e tensione, e allora a che serve? L’allattamento è certamente fisiologico, ma è una pratica del corpo, che si apprende, e non, come sostiene una certa retorica, qualcosa di “naturale”.
Non è naturale, e neanche istintivo.
L'istinto non ce l'ha la madre – né ad allattare né ad essere madre – c’è l’ha il neonato ad attaccarsi al seno, questo sì. Quindi, se a livello medico si ha la capacità di favorire questo innatismo del neonato, allora ci troviamo di fronte a processi naturali che vanno sostenuti. Non si deve, però, confondere l’istinto innato del bambino alla suzione con quello della madre all’allattamento, che non esiste. È anche estremamente riduttivo e pericoloso dire che la riuscita dell’allattamento dipenda dalla buona volontà e dalla motivazione della donna: ci sono troppe variabili. Per questo, ancora una volta: non si può fare nessun discorso sull’allattamento che prescinda dalla condizione personale.
C’è anche il fatto che, come per tutto ciò che ha a che fare con il corpo delle donne, anche sull’allattamento chiunque si sente autorizzato a esprimere il proprio parere.
Siamo di fronte a un continuo paradosso: ci dicono che allattare, come partorire, è assolutamente naturale, ma poi la medicalizzazione di queste pratiche toglie totale legittimità al modo di sentire e alle scelte delle donne. È questo che crea disorientamento, il fatto di non sapere più che cosa si vuole né che cosa si è in grado di fare. Quello che si dice o non si dice, che si fa o non si fa sul corpo femminile è sempre stato motivo di contesa: è sempre sul corpo delle donne che si gioca la qualificazione di una società. È una lente attraverso la quale possiamo guardare tante cose. Anche il tema del lavoro.
In che modo?
Oggi le donne che allattano di più sono quelle che lavorano. Può sembrare una contraddizione e, invece, è un dato che ci dice molto sulle modalità e la serenità con la quale le donne possono affrontare la maternità. La donna che non lavora è una donna che non ha un'indipendenza economica, che non sa cosa l'aspetta nel futuro e che, per questo, non è propriamente padrona di sé e delle proprie scelte. Anche le donne che lavorano, però, si scontrano con tutta una serie di problemi, come la questione dei congedi, le penalizzazioni di carriera e stipendio, la necessità per molte di dover scegliere, a un certo punto, se fare le madri o lavorare. Ed è qui, ancora una volta, che il supporto della “catena calda”, sociale e istituzionale, dovrebbe e potrebbe fare la differenza.
Non so se siamo riuscite con la dottoressa Riina nell’obiettivo di “detriggerare” il tema dell’allattamento però, dopo questa chiacchierata, a me si sono alzate le antenne su molte questioni. Una su tutte: parlare di allattamento è così “triggerante” proprio perché è la pratica di accudimento che, forse in assoluto, più problematicizza una serie di questioni non risolte sul corpo delle donne e sul ruolo e la figura della madre. Ecco perché dobbiamo parlarne ancora di più.
Appuntamenti
Prima di salutarci, ti segnalo due appuntamenti per vederci nei prossimi giorni:
il primo è tra poco, se stai leggendo la newsletter di lunedì mattina: oggi (27 gennaio) alle 13 chiacchiero sul profilo Instagram del magazine Giovani Genitori con Martina Mazzoleni, psicologa dell’età evolutiva, di “Bambini e routine”, ovvero del perché per i bambini le routine quotidiane sono tanto importanti, come provare a impostarne di utili per gestire con più serenità i vari momenti della giornata, come viverle con flessibilità. Se non puoi seguirla in diretta, ma vuoi recuperarla, la troverai salvata nel feed del profilo Instagram di GG;
il secondo è, invece, per sabato prossimo, 1 febbraio, alle 16: alla biblioteca Tilane di Paderno Dugnano, a nord di Milano, presento con grandissimo piacere “Basta un filo di vento”, l’ultimo libro di Franco Faggiani: se sei in zona, ti aspetto (l’ingresso è libero, ma meglio prenotarsi da questo link).
Qui, invece, ci sentiamo tra un paio di settimane.
Intanto, se questa numero ti è piaciuto, puoi farlo girare: basta cliccare sul bottone qui e sotto e inoltrare la newsletter a chi vuoi 🧡
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.
Grazie Silvia per questa puntata, davvero interessante ☺️