#29 Ci vuole un villaggio I Perché continuiamo a parlare di "Adolescence"
Con la psicologa Francesca Safina una riflessione su quello che la serie del momento ha provato a dirci degli adolescenti e, ancor più, di noi adulti, genitori e non
Ciao!
Io sono Silvia De Bernardin e questa è “Ci vuole un villaggio”, la newsletter che racconta il cantiere del nuovo villaggio, quello che ancora oggi serve per crescere bambine e bambini. Se questo numero ti è stato inoltrato, puoi iscriverti per riceverla direttamente nella tua casella email ogni due settimane dal bottone qui sotto:
Rieccoci! Come stai? Qui l’arrivo della primavera si sta facendo sentire, con tutta la sua spinta di rinnovamento, luminosa e, insieme, debilitante. Ed è il motivo per il quale questo numero della newsletter arriva con un paio di giorni di ritardo.
È dedicato alla serie del momento, quella di cui moltissimo già si è detto, ma di cui qui proviamo a parlare da un punto di vista diverso: ciò che “Adolescence” ha tentato di dirci su noi adulti più che sugli adolescenti.
Lo facciamo con l’aiuto di Francesca Safina, psicologa e psicoterapeuta sistemico-familiare e divulgatrice sui temi della psicologia. A lei ho girato le domande che, all’una di notte di qualche venerdì fa, mi hanno tolto il sonno dopo che l’ultimo episodio della serie mi aveva lasciata in preda a un senso di costrizione, smarrimento e dolore sordo al quale ho faticato a trovare da sola una chiave di lettura.
Ed ecco ciò che ne è venuto fuori.
Come mai questa serie ci ha colpito così tanto? Noi, che i ragazzi e le ragazze spesso li abbiamo in casa, abbiamo avuto bisogno di vederli rappresentati dall’esterno per mettere a fuoco ciò che su di loro “Adolescence” ci racconta?
Smonto subito l’ipotesi: a mio avviso, il motivo per cui questa serie ci ha colpito tanto è che mette in video, in maniera molto puntuale, quello che ciascun genitore di figlio o figlia adolescente vive. Cioè, un completo smarrimento, il perdersi di fronte al mondo dell'altro o dell'altra, che risulta incomprensibile. Nonostante l’adolescenza sia un territorio che per lavoro conosco bene, la mia prima reazione è stata quella di non capirci niente. Alla fine delle quattro puntate ho provato una sensazione forte di alienazione – che credo gli autori abbiano scelto puntualmente di provocare anche attraverso l’uso del piano sequenza, che è faticoso perché non dà mai un attimo di respiro. Uno dei punti di forza della serie sta proprio qui, nel fatto che l’adolescenza non venga spiegata, ma messa lì: ci viene chiesto di rimanere, di guardare, di farci delle domande sapendo che non avremo delle risposte. Che poi è esattamente quello che vivono le famiglie degli adolescenti, sia i genitori, che i ragazzi: l’adolescenza – e visto che ci siamo passati un po’ dovremmo saperlo – è esattamente quel minestrone confusionario di sensazioni, emozioni, polluzioni, spinte e controspinte che “Adolescence” ci mostra in maniera precisa e puntuale.
Una delle cose che più ha colpito anche me, nei primi due episodi, è proprio il disorientamento degli adulti di fronte alle dinamiche e ai linguaggi del mondo giovanile. È significativo il passaggio nel quale il figlio del poliziotto aiuta il padre a decifrare la situazione perché capisce che è in difficoltà e non sta capendo nulla di quanto è accaduto. Un certo grado di incomunicabilità generazionale c’è sempre stato: cosa c’è di diverso oggi?
Se guardiamo ai passaggi generazionali, la sensazione di non poter afferrare il mondo dell'altro si ripete perché ogni generazione ha le proprie modalità di comunicazione: pensiamo a tutto ciò che di nuovo ogni generazione adulta ha ritenuto potesse essere distruttivo per quella successiva, come può essere stato l'utilizzo massivo della musica o della televisione per noi che oggi abbiamo 40 anni. Oggi, però, c’è un divario specifico indotto dall'utilizzo dei device e dei social che comporta elementi di pericolo rispetto all'isolamento sociale, ed è un cambiamento epocale. Non dobbiamo dimenticarci, tuttavia, che il bisogno dell’essere umano di stare in relazione e in contatto con l’altro è fortissimo – lo abbiamo capito bene durante la pandemia: i tempi cambiano, ma l’uomo è sempre in grado di riorganizzarsi perché è un essere trasformativo per natura. Quello che osservo lavorando coi ragazzi è che questa generazione sta già trovando da sola il modo di riorganizzarsi. Ovviamente, questo non significa che da adulti non dobbiamo mantenere un livello di vigilanza perché il rischio – come ci mostra la serie – è alto.
Nel secondo episodio, ambientato in quella scuola così grande e caotica in cui tutti vagano da un punto all’altro, mi è parso di cogliere una forte critica all’istituzione scolastica, incapace anch’essa di far fronte alla complessità del mondo dei ragazzi e delle ragazze.
Viviamo in un momento storico nel quale la scuola è in grande difficoltà perché non riesce a stare al passo con i cambiamenti e le richieste dei ragazzi e delle ragazze. Penso a quello che le neuroscienze ci stanno spiegando sulle neurodivergenze: stiamo capendo che ci sono un'individualità e una peculiarità di funzionamento in ciascuno, che la scuola non è ancora pronta a seguire. E poi c’è il piano dell’ascolto emotivo, non contemplato dai programmi scolastici. Quell’episodio ci mostra proprio questo: una scuola dagli spazi bellissimi, ma incapace di ascoltare i ragazzi. La disorganizzazione emotiva tipica dell’età adolescenziale – quella che si vede benissimo nel comportamento del protagonista Jamie nel confronto con la psicologa, nel terzo episodio – ha una base chimica e ormonale che favorisce l'incapacità di gestire lo sbilanciamento emotivo interiore. Avremmo bisogno degli strumenti per comprendere e accogliere questi movimenti e, invece, non siamo per niente pronti in una società che vuole che le emozioni siano tenute a bada il più possibile. Che ancora dice ai ragazzi di non piangere e alle ragazze di non arrabbiarsi.
Accennava al terzo episodio, potentissimo, che mostra il confronto tra Jamie e la psicologa. Che effetto le ha fatto?
Quella della psicologa è una figura di adulto che mi è piaciuta molto: si vede una persona che fa il suo mestiere, e che lo fa con enorme cura e attenzione ai dettagli. La fragilità umana della terapeuta rimane fuori dal confronto con Jamie, lei si permette di crollare solamente quando lui se ne va. La sfida che le lancia è simile a quella che tutti i ragazzi e le ragazze lanciano ai propri genitori: l'adolescente cerca la conferma e, insieme, la distruzione dell'adulto, in un continuo oscillare tra due estremi che manda in confusione i genitori. La terapeuta fa quello che dovrebbe fare ogni adulto: mantenere il confine fermo, senza cedere alla provocazione. Lasciare che i ragazzi si esprimano, ma segnalando loro fin dove possono arrivare in modo che possano introiettare quali sono i confini sani e, nel tempo, costruire i propri.
Un compito difficilissimo.
Il rischio di oggi è dato dal fatto che viviamo in un’epoca “figliocentrica”, in cui tendiamo a dare e concedere ai figli tutto con l’idea di fare loro del bene. È una permissività che può diventare soffocante e problematica lì dove si perde il confine tra l’adulto e il minore. A proposito di serie, ce n’è una che noi della nostra generazione, e io stessa, abbiamo amato molto, “Una mamma per amica”, che da questo punto di vista è terrificante: ci dice molto di come negli ultimi 20-30 anni abbia preso spazio l’idea dei “genitori amici” che confonde i confini. I ragazzi, invece, hanno bisogno di crescere per differenza dagli adulti. Da questo punto di vista, la psicologa di “Adolescence” fa un ottimo lavoro: pone un confine, che è solido e protettivo, ma rimane tale ed è ciò che permette a Jamie di esplorare le sue parti oscure in sicurezza. È quello che dovremmo fare tutti noi: offrire ai ragazzi limiti sani, che diano loro la possibilità di conoscersi in sicurezza e di crescere.
Su questo si confrontano, in maniera straziante, i genitori di Jamie nell’ultimo episodio interrogandosi sul se e sul cosa di diverso avrebbero potuto o dovuto fare. È quello che si chiede ogni genitore rispetto a molte azioni dei figli, anche senza arrivare agli estremi della serie. Dove finisce la responsabilità genitoriale e inizia quella dei ragazzi e delle ragazze in quanto persone?
Credo che gli autori della serie non abbiano scelto a caso l’età di Jamie: 13 sono esattamente gli anni ponte tra l’essere un bambino e il diventare un ragazzo. A quell’età lo sviluppo ormonale non è ancora completato, e ricordiamoci che il cervello umano arriva a maturazione a 21 anni. Sul piano emotivo, parlare di responsabilità personale per un bambino di 13 anni è molto delicato. Si è molto discusso, commentando la serie, del fatto che non si possano incolpare le famiglie di tutto e della responsabilità della sottocultura legata ai social e alla “manosfera”. È sicuramente così: c’è una parte di responsabilità genitoriale, che si mescola alla responsabilità sociale rispetto agli stimoli che i ragazzi e le ragazze ricevono. La mia impressione, rimanendo alla famiglia di Jamie, è che gli autori abbiano voluto trasmetterci l’idea di un contesto molto diffuso, soprattutto rispetto alla figura del padre.
Ovvero?
Il padre di Jamie è un uomo che certamente sta tentando di affrancarsi da un modello violento di relazione, che però continua a venir fuori – le reazioni che ha nell’ultimo episodio sono molto violente e completamente disregolate per un adulto. Sotto traccia serpeggia un modello di mascolinità virile in cui la violenza c’è, anche se non è esplicita. Probabilmente è un uomo che non ha mai picchiato la moglie, ma che ha una sua durezza e incapacità di stare nell’emotività.
Un’incapacità che poi, nel mondo dei ragazzi, si traduce per esempio nella sottocultura incel, che in molti abbiamo scoperto proprio con questa serie. La mia impressione, tuttavia, è che questa sia anche una storia di femminicidio, ma non solo.
Gli autori non hanno scelto che Jamie uccidesse un suo compagno, ma che uccidesse una ragazza, e non è un caso. La forza di questa serie così ben scritta è che ci dà l’occasione di riflettere sulla componente multifattoriale dei femminicidi, e non solo. Noi esseri umani siamo complessità e questa serie lo spiega benissimo. Come dicevamo all’inizio, la sua visione ci lascia un senso di smarrimento, che è esattamente quello che proviamo di fronte alla complessità che è dentro di noi e fuori, nelle relazioni che viviamo. Per riuscire ad arginarlo, abbiamo bisogno di imparare a stare nella complessità, anche accettando il fatto di non capire del tutto il mondo dei nostri figli e di non aver accesso completo a territori che non sono propri della nostra generazione. E, insieme, però, di rimanere in osservazione e in ascolto, cercando di comprendere, facendoci spiegare, mostrando interesse per il loro mondo e non bollando tutto come inutile o stupido.
In Inghilterra vorrebbero far vedere la serie nelle scuole. Cosa ne pensa? E del vederla insieme a casa con i ragazzi e le ragazze?
Come ogni cosa, può essere utile se serve ad avviare un confronto con loro, altrimenti ha poco senso. Il punto, però, credo sia un altro: serve un intervento strutturale, a partire proprio dalle scuole, sull’educazione affettiva ed emotiva, per iniziare a parlare con i ragazzi di quello che succede loro in maniera sistematica e continuativa.
Non so se, arrivando alla fine di questa intervista, hai anche tutta la stessa sensazione che ho io. Ovvero, che le domande, più che risposte, abbiano sollecitato altre domande o, quantomeno, non esaurito la spinta di riflessione scatenata da questa serie, indubbiamente potente sotto tanti punti di vista. In fondo, se continuiamo a parlarne è proprio perché ha saputo fare il suo: smuovere qualcosa dentro di noi e, come suggerisce la dottoressa Safina, metterci di fronte alla nostra complessità umana che, nell’adolescenza più che in altri momenti della vita, richiede attenzione, ascolto, presenza, sospensione del giudizio. E la capacità di noi adulti di ripensarci come comunità intorno a un senso di responsabilità nuovo verso le ragazze e i ragazzi.
E tu? La serie l’hai vista? Cosa hai pensato? Se ti va di parlarne, questo spazio è sempre aperto: scrivimi!
Intanto, come sempre, grazie per aver letto fino a qui 🧡 La prossima volta ci risentiamo, come di consuetudine, di lunedì mattina, a Pasquetta!
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.
Grazie per l'interessante intervista, che mi trova d'accordo in molti punti. In particolare mi ha colpito il suggerimento per noi adulti di imparare a stare nella complessità dei nostri ragazzi, rimanendo sempre aperti in un ascolto interessato e non giudicante del loro mondo. Non è facile e, per esperienza personale e professionale, credo che l'intervento strutturale di cui parla la dottoressa Safina sull'educazione affettiva, emotiva e, aggiungerei, relazionale debba essere indirizzato anche, e soprattutto, al mondo adulto, per acquisire quegli strumenti di attenzione, ascolto, presenza, sospensione del giudizio e di sano limite, fondamentali per accompagnare con maggior serenità ed efficacia i ragazzi nella loro crescita.
Numero notevole, complimenti!