#31 Ci vuole un villaggio I Ripensare le vacanze
Le nostre vacanze estive dicono molto di come viviamo nel resto dell'anno e del fatto che, forse, dobbiamo rivedere entrambe le cose
Ciao!
Io sono Silvia De Bernardin e questa è “Ci vuole un villaggio”, la newsletter che racconta il cantiere del nuovo villaggio, quello che ancora oggi serve per crescere bambine e bambini. Qui parliamo di genitorialità, ma anche di comunità, reti sociali, lavoro, servizi, welfare, territorio, cultura, narrazioni. Se vuoi riceverla direttamente nella tua casella email ogni due settimane, puoi iscriverti dal bottone qui sotto:
Poco prima di iniziare a scrivere questa newsletter mi sono imbattuta in almeno due articoli il cui contenuto era, grosso modo, questo: i lunghi ponti di primavera appena trascorsi ci hanno fatto capire che abbiamo bisogno di più tempo per vivere e che dobbiamo lavorare meno. Una consapevolezza che mi trova molto d’accordo e che mi ha aiutato a chiudere il cerchio rispetto ad alcuni pensieri di cui volevo scrivere. Ora provo a riavvolgere il nastro, vediamo se riesco a spiegarmi per bene: parliamo di vacanze.
Una cosa di cui non sono affatto convinta
Nei giorni scorsi ho fatto una cosa di cui non sono affatto convinta e della quale potrei anche pentirmi: ho prenotato una settimana di vacanza, ad agosto, al mare, in un posto che credo troverò parecchio affollato. Come mi ha fatto notare qualcuno: ma come? Proprio tu? Sì, proprio io che da anni scrivo di turismo e conosco bene le dinamiche dell’overtourism e l’andamento del borsino dei prezzi, che ad agosto lievitano in maniera spropositata. Io che ormai non tollero più il caldo e molto poco l’avere tanta gente intorno. Io che, marina per tradizione familiare (per la mia famiglia di origine le vacanze sono sempre state solo ed esclusivamente al mare), negli ultimi anni ho scoperto il piacere della montagna: di camminare, indossare il pile dopo le sei di sera, dormire col piumino anche a Ferragosto.
Il punto è che, dopo gli ultimi anni di vacanza in posti defilati sopra i 1400 metri, sento che mi manca il mare, che ho voglia di nuotare, guardare il sole che va giù oltre la linea dell’orizzonte, sentire la pelle che pizzica per la salsedine e il sole bollente. Poi ci sono le motivazioni logistiche: in vacanza a giugno o a settembre, quando c’è meno ressa e i costi sono decisamente più bassi, io ci andrei molto volentieri, ma per come è strutturato al momento il mio lavoro è complicato. Senza considerare che a giugno, luglio e settembre ci sono i campi estivi che coprono la lunghissima pausa estiva delle scuole (a pagamento, ovviamente), mentre ad agosto no: se dovessi spostare le mie ferie in altri periodi, in quel mese l’organizzazione familiare si complicherebbe molto.
Ecco, allora, che ho fatto questa prenotazione, pur non essendone pienamente convinta. O, meglio, sentendomi in colpa. Hanno vinto i vincoli organizzativi e, anche, il desiderio e la curiosità: di rivedere il mare e conoscere un posto nuovo, nel quale non sono mai stata e che mi attira da tempo. Pagherò lo scotto sentendomi molto probabilmente accerchiata e, quasi certamente, versando un bonifico a saldo non proporzionato. Proverò ad alleviare il senso di colpa di essere una delle moltissime persone che va negli stessi posti, nello stesso momento, spostandomi in treno e trascorrendo il resto del tempo dedicato al riposo estivo in luoghi più defilati, più vicini, meno affollati, ma non so se basterà.
La voglia di andare
La questione, per quanto mi riguarda, è che occupandomi di turismo da anni e studiando da un po’ il tema degli impatti ambientali e sociali di questa industria sui territori e le comunità, faccio ormai molto fatica a spostarmi senza farmi mille domande e senza provare a trovare una soluzione di compromesso tra spinte diverse e contrastanti. Apro l’app di Booking in cerca di voli per Parigi, dove mia figlia mi chiede di andare da tempo, e per Vienna, che non ho mai visitato e che vorrei vedere, ma poi mi chiedo: è sensato ed eticamente sostenibile prendere un volo - a costi ancora una volta alti - per una toccata e fuga di tre giorni scarsi? Mentre tergiverso senza riuscire a decidermi, sotto sento spingere la curiosità, la voglia di andare, vedere, assaporare, stupirmi, farmi domande: quello che succede quando vai altrove, e poi torni. E di farlo insieme a mia figlia. Vorrei che anche lei provasse il senso di stupore che ho provato io in passato quando, girando l’angolo in uno stretto canyon polveroso, mi si è spalancata davanti la meraviglia di Petra. La commozione che mi ha preso davanti alla Notte stellata di Van Gogh, al MoMA di New York. Lo strano déjà vu che mi ha fatto perdere la cognizione spazio-temporale mentre navigavo sul Nilo. Ma so anche che tutto ciò rappresenta un enorme privilegio e, come tale, va maneggiato con grande cautela e senso di responsabilità. E anche che da come viaggiamo e viaggeremo insieme io e lei ora e nel prossimo futuro dipenderà molto della viaggiatrice, più o meno consapevole, che diventerà lei.
E, allora, mi chiedo: come se ne esce? Come si concilia la voglia di vedere il mondo e di rendere i propri figli curiosi verso l’altro e l’altrove con il fatto che esaudire oggi quel desiderio significa avere un impatto sull’ambiente, sui territori e sulle comunità che rischia di compromettere le possibilità delle generazioni future di esaudirlo a loro volta domani? La risposta è che non lo so, anche se qualche suggerimento utile l’ho trovato proprio nelle mie letture sul turismo.
Creare le condizioni
Un paio di mesi fa ho intervistato il collega Alex Giuzio, autore del saggio Turismo insostenibile. Per una nuova ecologia degli spazi e del tempo libero. Una parte molto interessante è quella nella quale Giuzio collega gli impatti del turismo ai nostri ritmi di vita e di lavoro. Nel corso dell’intervista mi ha spiegato:
“Se si lavorasse meno, si avesse più tempo libero, si vivesse meglio nei luoghi dove abitiamo abitualmente, probabilmente non avremmo questo desiderio di evadere a migliaia di chilometri di distanza come facciamo adesso col turismo mordi-e-fuggi, che con i voli low cost ci porta a consumare poche notti molto lontano. Magari, saremmo più portati a visitare i luoghi e le comunità che abitiamo e quelli vicini, che non abbiamo mai il tempo di conoscere. Continueremmo probabilmente a voler vedere anche luoghi lontani, ma senza la frenesia compulsiva di ‘collezionare’ viaggi e destinazioni. Chiaramente, questo significa mettere in discussione un intero sistema economico”.
Il punto, spiega poi Giuzio nel libro, non è tanto smettere di viaggiare - cosa, tra l’altro, contraria alla stessa natura umana - ma certamente serve “andare oltre il turismo” per come lo abbiamo conosciuto finora: “In tempi di crisi climatica - ha proseguito - ci sono forme di turismo che vanno abbandonate: non possiamo più permetterci enormi quantità di voli aerei e crociere utilizzate per fare vacanze brevi molto lontano. Serve ridurre la mobilità inquinante e agire sulla questione culturale capendo che il turismo è, prima di tutto, un incontro con altri luoghi e altre persone, che non conosceremo mai davvero andando per pochi giorni, insieme ad altre migliaia di persone, negli stessi luoghi, nello stesso momento. Abbiamo bisogno di una dimensione del turismo più lenta e più lunga, di tornare più volte nello stesso luogo per conoscerlo meglio, come si faceva una volta con la villeggiatura”.
Per riuscire a farlo, però, serve un sistema che crei le condizioni, pratiche e psicologiche.
Che si lavori di meno, per esempio, per ridurre quel senso di sfinimento che tra luglio e agosto ci spinge tutti a cercare un’illusoria compensazione altrove. Che i tempi delle “chiusure” del lavoro e della scuola vengano rivisti rispetto a un’impostazione che non ha più senso di esistere, perché si possa pensare di fare vacanza e di viaggiare con tempi più distesi e lunghi e a prezzi più accessibili anche “fuori stagione”. Che le nostre città diventino più accoglienti e vivibili, anche climaticamente, per non volerne scappare appena possibile invadendo quelle degli altri. Che la politica faccia il suo nel regolamentare fenomeni come quello degli affitti brevi che, se da una parte hanno reso economicamente accessibile a più persone un fine settimana fuori porta, dall’altra stanno distruggendo il tessuto sociale, comunitario e produttivo di molte località.
“Il turismo è politica”
Nei giorni scorsi ho letto un libro che apparentemente non ha niente a che fare con tutto questo, ma il cui impianto ideale credo si adatti alla perfezione. Si intitola Il cibo è politica e lo ha scritto Fabio Ciconte (ne parlo, con lui, su Vegolosi MAG di maggio, che esce proprio oggi). La tesi che Ciconte propone è che, per quanto possiamo essere consapevoli nelle nostre scelte di acquisto di cibo, esse non serviranno a cambiare le cose fino a quando non le inquadreremo in una dimensione collettiva, condivisa e, appunto, politica, tutta da ricostruire. Continueremo a sentirci in colpa ogni volta che compreremo l’insalata in busta al supermercato, pur sapendo che stiamo sprecando plastica, o quando metteremo nel carrello la vaschetta di pollo in offerta, facendo finta di ignorare i costi invisibili, ma decisamente più alti, che quell’alimento ha per la nostra salute, i diritti dei lavoratori che lo hanno prodotto, l’ambiente, gli altri esseri viventi. E, invece, dovremmo lottare per un salario più equo, che permetta a tutti di comprare cibo di qualità al giusto prezzo, e per ritmi di vita più sani, che ci lascino almeno il tempo di lavare un cespo di insalata fresca comprata al mercato, fuori busta.
Ecco, parafrasando Ciconte, mi viene da dire che anche il “turismo è politica”: non c’è dubbio sul fatto che ciascuno di noi debba diventare più consapevole delle proprie scelte di viaggio e di vacanza. Ma questo non elimina le responsabilità collettive e politiche per la rimodulazione di spazi e tempi di vita, di lavoro e di studio che pongano ciascuno nelle condizioni di scegliere di viaggiare e riposare diversamente - e, prima ancora, di poter fare entrambe le cose. Sì, perché vale la pena ricordare che le vacanze non sono cosa scontata: i dati di settore dicono che, dalla pandemia in poi, il numero degli italiani che fanno le vacanze è in calo e che chi ci va tende a fare soggiorni più brevi e a cercare soluzioni economiche perché la capacità di spesa delle famiglie è diminuita: per molte persone anche pochi giorni fuori casa rimangono un lusso.
Appuntamenti
Prima di salutarci, qualche appuntamento per vederci nei prossimi giorni:
mercoledì 14 maggio, alle 20.45, modererò un appuntamento online della Scuola Genitori del CPP (Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti) tenuto dal pedagogista Daniele Novara, dal titolo “Non sarà il tuo peluche. Il bisogno dei figli di un padre educativo”. L’incontro è gratuito, per partecipare ci si può iscrivere a questo link;
domenica 18 maggio, invece, sarò con grande gioia al Salone del Libro di Torino, per fare un po’ di giretti, come ogni anno, ma anche per condurre la presentazione del libro “Adolescenti e vita emotiva. Tra Generazione Z e Generazione Alpha”, a cura di Vanna Iori, Elena Marta, Adriano Mauro Ellena e Sara Martinez-Damia, edito da Vita e Pensiero. L’appuntamento è alle 14: ci vediamo lì!
Altrimenti, come sempre, ci leggiamo qui tra due settimane 🧡
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità, turismo, libri. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG, L’AltraMontagna e Job in Tourism.
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Questo è l'articolo sul turismo che avrei voluto scrivere io. Bellissimo.
I tuoi dubbi sul passare il piacere di viaggiare e scoprire ai figli sono anche i miei dubbi… spero di intercettarti al Salone del Libro, ciao!