#33 Ci vuole un villaggio I Non solo fragili
Nei giorni della maturità, uno studio ci dice che ragazze e ragazzi sono molto di più delle loro fragilità e ci ricorda che parlare di loro significa anche parlare di noi
Ciao!
Io sono Silvia De Bernardin e questa è “Ci vuole un villaggio”, la newsletter che racconta il cantiere del nuovo villaggio, quello che ancora oggi serve per crescere bambine e bambini. Qui parliamo di genitorialità, ma anche di comunità, reti sociali, lavoro, servizi, stili di vita, territorio, cultura, narrazioni. Puoi iscriverti qui:
Noi e loro
Inizio a scrivere questo numero della newsletter mentre sono in treno, sto andando a Sauris per la prima edizione del Festival del Digital Detox: tre giorni per riflettere sul tema dell’iperconnessione e, contemporaneamente, prendersi del tempo per “staccare”. Io parteciperò a un panel dedicato ai “figli iperconnessi”: ho buttato giù un po’ di appunti, anche a partire da quello che su questo tema ho scritto qui negli ultimi mesi. Sono certa che tornerò da Sauris con il quaderno e la testa piena di belle sollecitazioni: poi ne parliamo.

Intanto, sono i giorni della maturità. Su social e in tv è tutto un Venditti. Intercetto su IG un servizio di TV7 sui maturandi girato nella mia cittadina, tra la scuola superiore e la biblioteca dove i ragazzi e le ragazze stanno preparando l’esame, e al concerto dei Pinguini Tattici Nucleari, a San Siro. Lo guardo tutto e alla fine mi commuovo pensando all’enormità della vita che sta per spalancarsi loro davanti. Sono giovani con la luce negli occhi, sanno di stare per varcare un confine, hanno la consapevolezza che ci sarà un prima e un dopo quest’estate che non dimenticheranno, ma sembrano curiosi di scoprire cosa c’è dall’altra parte. Hanno un po’ di timore, come è normale che sia, per l’esame e per quello che sarà poi, e allentano la tensione cantando a squarciagola a un concerto. C’è chi ha le idee molto chiare su cosa fare dopo, chi vuole pensarci bene su, chi ha l’unica certezza di voler lasciare l’Italia.
La maturità, che in Italia è rimasto l’ultimo rito di passaggio collettivo verso l’età adulta, è uno dei pochi momenti nei quali la narrazione pubblica lascia spazio ai ragazzi e alla ragazze: ci si mette fuori dalle scuole e, nel chiedere loro che traccia hanno scelto per il tema e se la versione di latino fosse difficile, per un attimo ci si ferma ad ascoltarli. È diventata virale la dichiarazione di Marcello, liceale di Bologna, che intervistato ha detto:
“Quando mai a 18 anni mi ricapita di avere l’occasione di poter parlare davanti a sei, sette adulti, che stanno in silenzio ad ascoltarmi? Del voto di maturità mi interessa poco: per una volta vorrei essere guardato. Per quello che sono, e non per quello che vorrebbero che fossi”.
Mi ha ricordato ciò che leggevo nelle scorse settimane negli esiti della rilevazione annuale condotta dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo contenuti nel libro “Adolescenti e vita emotiva”, edito da Vita e Pensiero. Nell’analizzare le cause della fragilità emotiva dei giovani e le sue manifestazioni a partire dai loro racconti, lo studio sottolinea:
“il profondo senso di esclusione percepito dagli e dalle adolescenti nella società italiana. I giovani e le giovani si sentono spesso irrilevanti non solo per la politica, ma anche per le figure adulte e le istituzioni in generale. Questa sensazione si manifesta attraverso diversi aspetti, tra cui i pregiudizi nei loro confronti, la percezione di essere invisibili nella società, la mancanza di rappresentanza e la frustrazione legata alla difficoltà di farsi ascoltare”.
I ragazzi e le ragazze - dice lo studio - non si sentono considerati, avvertono che le loro idee e istanze non contano, ritengono di essere invisibili. Una percezione che li porta a chiudersi sempre più in loro stessi - e nella bolla dei social - e, soprattutto, a perdere fiducia e speranza verso il mondo adulto e il proprio futuro.
Della ricerca questo è il punto che mi ha colpito di più, ma non è l’unico. Ad esempio, viene affrontato il tema della rabbia giovanile, che ha una spiegazione neurobiologica: il sistema limbico, responsabile dell’elaborazione emotiva, e la corteccia prefrontale del cervello, deputata al controllo delle emozioni impulsive, crescono a ritmi diversi e questo crea uno squilibrio temporaneo che si assesta solamente ben oltre i 20 anni. Una rabbia per certi versi inevitabile, dunque, che in altri contesti generazionali ha trovato valvole di sfogo collettive, diventando anche motore di cambiamento sociale e che oggi, invece, si consuma nella sfera personale e virtuale, spegnendosi in una sorta di rassegnazione. O quello dell’empatia, che tra i più giovani tende a essere “di prossimità” (limitata cioè ai rapporti stretti e difficilmente estesa alle persone sconosciute o al contesto sociale più ampio) e del rispetto della diversità, che è molto selettivo. Ci sono poi la violenza, percepita come fenomeno diffuso, e l’ansia da prestazione che, unita alla paura di non essere all’altezza delle aspettative, crea paura di fallimento e immobilità.
Però. Ci sono anche dei però. Lo studio racconta anche l’altro lato della medaglia. Davanti a una narrazione spesso monocorde, che rappresenta ragazzi e ragazze unicamente come fragili, impauriti e per nulla fiduciosi del domani, c’è un’altra storia che merita spazio: quella dei giovani che si impegnano comunque, che scendono in piazza - per l’ambiente, per Gaza, contro i femminicidi - che, nonostante le nostre orecchie adulte spesso sorde, continuano a reclamare il loro posto nel mondo. Che poi, è anche il nostro.
Perché parliamo di loro, ma ci dimentichiamo che stiamo parlando di noi. Che se dai ragazzi e dalle ragazze ci aspettiamo che si battano per una società più giusta e inclusiva, dovremmo essere noi i primi a farlo. Che se ci lamentiamo delle ore che passano a scrollare i social, non dovremmo controllare compulsivamente le mail del lavoro mentre passiamo del tempo in loro compagnia. Che pretendere da loro il massimo rendimento in ogni attività non dice nulla del nostro essere dei “bravi genitori”.
Lo studio affronta anche il tema del senso del limite e dell’errore, evidenziando l’importanza che la comunità educativa adulta
“avvi una riflessione approfondita e onesta che aiuti a comprendere come questi siano aspetti ineliminabili del vivere e come ciò che conta sia imparare a riconoscerli e a gestirli”.
Non tutto è nelle nostre mani - ricorda il saggio - esistono limiti che, anche con tutto l’impegno del mondo, non possiamo valicare: sta a noi, piuttosto, la responsabilità nel fare del nostro meglio, imparando ad accettare anche il fallimento. Chissà - penso - se questa cosa l’avessero detta a noi, che oggi navighiamo tra i quaranta e i cinquanta anni, quante cose sarebbero state diverse nelle nostre vite.
Di tutti questi temi ho discusso lo scorso maggio al Salone del Libro di Torino presentando il libro insieme ad Adriano Mauro Ellena, docente di Psicologia sociale e Psicologia delle relazioni interpersonali all’Università Cattolica di Milano, tra i curatori dello studio. Il video completo della presentazione è questo:
Se lo guarderai, ti accorgerai che il tema del villaggio è molto presente in questo discorso sugli adolescenti: la fragilità dei giovani è strettamente correlata a quella degli adulti e alla difficoltà delle famiglie ad assumere una posizione educativa chiara, spiegano gli esperti. Per questo, suggerisce lo studio, è importante investire sulla “comunità educante”, perché tamponi la solitudine dei genitori e offra loro una sponda per confrontarsi e condividere scelte, timori, idee, buone pratiche.
È l’idea di una “genitorialità estesa” nella quale famiglie, scuola, istituzioni, terzo settore, mondo dello sport e della cultura, realtà territoriali si mettono in rete non tanto per promuovere “iniziative per i giovani”, ma per recuperare attraverso di esse “un senso profondo del noi” e della relazione con l’altro.
Dopo questa presentazione, per giorni ho continuato a riflettere su quanto avevo letto e discusso e mi sono accorta di quante volte negli ultimi mesi avessi ascoltato lamentele sui ragazzi e le ragazze, sulla loro presunta poca voglia di fare, di lavorare, di impegnarsi a fondo per costruirsi un futuro “come si faceva una volta”. E anche delle volte in cui anche a me è venuto qualche dubbio sul “mordente” dei giovani di oggi. E mi sono sentita improvvisamente “vecchia”. Davvero, varcata appena la soglia dei quaranta, sono già a quel punto della vita in cui: “Eh, ai miei tempi, però…”, mi sono domandata. Perché caderci è un attimo: i giovani ci dicono chiaramente che non li stiamo ascoltando e noi cosa facciamo? Non li ascoltiamo.
“Le trasformazioni dell’adolescenza nel susseguirsi delle generazioni, sono sempre legate alle modificazioni del contesto sociale e culturale nel quale i ragazzi e le ragazze si trovano a crescere - ho letto a un certo punto nello studio dell’Istituto Toniolo sorprendendomi per la constatazione quasi lapalissiana, ma illuminante -. In questo senso, gli e le adolescenti sono una sorta di avanguardia che ci avvisa delle mutazioni che stanno avvenendo in noi e nel nostro modo di vivere, di sentire e pensarci”.
Mi pare un’immagine molto bella: se davvero le ragazze e i ragazzi sono la nostra avanguardia, forse varrebbe la pena fermarsi ad ascoltarli, prendere in considerazione le loro richieste quando ci dicono che vogliono cose come l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole, fidarsi di loro quando ci indicano modi diversi di intendere la scuola, il lavoro, la vita. Potrebbero vederci giusto.
Un libro
Prima di chiudere, il suggerimento di un libro corto, ma intenso, “Piccole cose da nulla”, di Claire Keegan: in una manciata di giorni, poco prima di Natale, il protagonista Bill Furlong si trova a prendere una decisione che, pur non avendo conseguenze dirette su di sé e la propria amata famiglia, può segnare per lui un prima e un dopo significativo. Una storia che è un invito a non perdere mai di vista le “piccole cosa da nulla” e a non girarsi dall’altra parte per continuare a essere umani.
E tu, cosa stai leggendo? Qui i consigli di lettura sono sempre ben accetti quindi, se ti va, scrivimi che io metto in lista 📚
Intanto, ti auguro una buona settimana, fatta di tanti gelati freschi: ne avremo bisogno!
Ci leggiamo qui tra due settimane! 🧡
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità, turismo, libri. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG, L’AltraMontagna e Job in Tourism.
Le immagini che danno forma visiva al villaggio di questa newsletter sono frutto della mano e della creatività magica di Alice Fadda.
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