#6 Ci vuole un villaggio I Hai studiato per l'interrogazione su Manzoni?
Una riflessione sul rapporto tra genitori e scuola (con qualche numero). E poi, la "legge dei 100 anni", un libro che parla di benessere (digitale) e un po' di montagna (da leggere)
Ciao!
Come stai? Come sono andate le ultime due settimane? Qui gennaio ha ripreso a correre prendendo il passo veloce del resto dell’anno. Sto provando a tenerlo a bada camminando appena posso nella natura, vedendo amici e andando a letto presto: sì, ho realizzato che per me gennaio è il mese dell’anno in cui più volentieri spengo la luce un po’ prima. Quell’oretta di sonno in più mi ricorda che il ritmo circadiano ha un senso e che siamo fatti per riposare, quando fuori è buio (con buona pace delle luci blu dei nostri device).
Ora cominciamo: parliamo di scuola.
In questi giorni, per una serie di coincidenze, mi sono trovata a riflettere spesso sul nostro - nostro di noi genitori, intendo - rapporto con la scuola. Un po’ è stata la cronaca, con la notizia della punizione (5 in condotta e dieci giorni di sospensione) agli studenti che a Roma, lo scorso dicembre, hanno occupato lo storico liceo Tasso, con i genitori dei ragazzi parecchio protagonisti della vicenda e, ancora, con quella del preside di Cosenza che ha denunciato di essere stato schiaffeggiato da un genitore per il mancato inserimento della figlia in un progetto scolastico (tipologia di notizia, quest’ultima, che salta fuori periodicamente).
Un po’ sono state le chiacchierate con alcune amiche che insegnano alla scuola superiore e che mi hanno raccontato le difficoltà che incontrano nel rapportarsi con i genitori dei loro studenti, con la sottile linea che separa la partecipazione dall’ingerenza sempre più difficile a vedersi. “Ma come è possibile che mia figlia abbia preso 5 nell’interrogazione su Manzoni? Avevamo studiato così bene!”, si sentono dire ai colloqui le mie amiche prof. Ma in che senso “avevamo”?
Me lo sono chiesto anche io quando, a mia volta, mi è stato detto: “Vi invito a esercitarvi un po’ di più con le addizioni”. E dentro di me, sorridendo, ho pensato: “Vi? Ma io, quelle con il riporto, ho imparato a farle da un pezzo!”.
Una questione di ruoli. L’impressione che ho è che facciamo tutti un po’ fatica a posizionarci. Dove, quello che succede dentro la scuola sul piano più strettamente operativo - l’impostazione delle lezioni, le interrogazioni, le verifiche - è cosa che riguarda la relazione tra studenti e docenti e l’assunzione di responsabilità degli uni e degli altri rispetto a ciò che compete a ciascuno, e dove entriamo in campo noi genitori? E, soprattutto, per fare che cosa? Fino a che punto è bene controllare senza sosta quaderni, registri elettronici, chat di classe che scoppiano di messaggi sui compiti da recuperare e fare le nottate insieme ai ragazzi per studiare (di nuovo!) “I Promessi Sposi”?
La risposta non la so e io stessa faccio fatica spesso a posizionarmi, appunto. Temo che sia, prima di tutto, una questione che investe il rapporto di fiducia - il “patto educativo”, lo chiamano gli esperti - incrinato se non addirittura rotto, in molti casi, tra scuola e famiglie: della scuola ci fidiamo sempre meno e per questo abbiamo bisogno di metterci dentro il naso. Gli insegnanti, questa diffidenza, la avvertono e, se da una parte sono spesso i primi a sollecitare la partecipazione attiva dei genitori soprattutto nelle classi inferiori, anche per far fronte alle carenze generali del sistema, dall’altra la patiscono (lo racconta bene, numeri alla mano, un rapporto Ipsos di un paio di anni fa del quale si parla qui). Credo che in tutto questo c’entri anche quella generale ansia da prestazione diffusa tra noi genitori e in parte alimentata da un sistema scolastico molto focalizzato sul profitto (il famoso “merito”) più che sul processo di apprendimento in sé: se il rendimento scolastico dei ragazzi diventa la cartina tornasole di quanto siamo bravi noi a fare i genitori, studiare con loro (o giustificarli quando non lo fanno) ci riguarda così tanto perché il voto che prenderanno loro è, in qualche modo, un voto anche a noi stessi.
E di responsabilità. Una cosa di grande buon senso, però, l’ho sentita dire da Davide Taraschi, uno dei ragazzi del Tasso di Roma che, intervistato da Massimo Gramellini su la7 in merito alla levata di scudi (non richiesta dai ragazzi, per altro) di alcuni dei genitori contro le misure adottate dal dirigente scolastico, ha ricordato che “gli studenti vanno a scuola anche per responsabilizzarsi” (ovvero, anche per sbagliare assumendosene poi le responsabilità del caso).
Ascoltandolo parlare, mi sono chiesta: e se, in nome di questo obiettivo, forse primario della scuola, da genitori, dovessimo provare a fare un passo indietro su compiti e interrogazioni e uno avanti in un’altra direzione? Chiedendo allo Stato più che ai singoli docenti, per tutti e non solamente per i nostri figli, quello di cui la scuola ha davvero bisogno? Inclusività, approcci pedagogici aggiornati, tempo pieno per tutti, revisione del calendario scolastico, più formazione e stipendi più alti per gli insegnanti, edifici strutturalmente sicuri e attrezzati, per esempio?
Perché, lo ha ricordato sempre lo studente del liceo romano occupato, storie come quelle del Tasso - e i dibattiti che ne sono seguiti, compreso quello che stai leggendo qui - riguardano quasi sempre le grandi scuole di città e una certa fetta sociale di popolazione scolastica. Ma è fuori, nelle periferie, nelle province (più al Sud che al Nord) che la scuola si trova a dover fronteggiare questioni di carattere più “basico”, diciamo. Eccone alcune:
in Italia, solo 2 alunni su 5 della scuola primaria, ovvero mediamente poco meno del 40%, beneficiano del tempo pieno perché mancano le condizioni strutturali e i docenti per poter garantire le 40 ore settimanali. Le percentuali più basse sono in Molise (9,4%), in Sicilia (11,1%) e in Puglia (18,4%). Nelle Regioni nelle quali l’offerta di tempo pieno garantito è più alta - ovvero Lazio, Toscana e Lombardia - si raggiunge al massimo il 58% (anche in questi casi, quindi, solamente poco più della metà della popolazione scolastica delle elementari frequenta il tempo pieno). Allo stesso modo, poco più di un bambino su due ha accesso alla mensa, con divari territoriali enormi che vanno dal 6% della provincia di Palermo al 96% di quella di Firenze (i dati sono quelli forniti da Save The Children lo scorso novembre nel report “Mense scolastiche: un servizio essenziale per ridurre le disuguaglianze” nel quale si sottolinea come la “mensa nelle scuole è essenziale per garantire agli studenti, soprattutto quelli in condizioni di maggior bisogno, il consumo di almeno un pasto sano ed equilibrato al giorno”);
i bambini che sotto i tre anni hanno accesso ad asili nido o a servizi equivalenti sono il 28% del totale, molto meno della media europea del 37,9% e ben lontano dai target fissati dall’Europa del 33% di copertura (che avremmo già dovuto raggiungere nel 2010) e del 45% (da ottenere entro il 2030). Anche qui la disparità geografica è netta e si va dai tassi molto alti di Umbria, Emilia Romagna, Valle d’Aosta e Provincia autonomia di Trento, superiori al 40%, al record negativo di Campania, Calabria e Sicilia, dove solo 15 bambini su 100 hanno accesso all’asilo nido (qui i dati sono Istat);
per quanto riguarda l’edilizia scolastica, la maggior parte degli edifici scolastici statali non dispone di tutte le attestazioni relative ai requisiti di sicurezza, che sono detenute da poco meno del 40%. In fatto di raggiungibilità, è il Mezzogiorno a essere più svantaggiato, con il 14,8% degli edifici che risulta poco raggiungibile sia con scuolabus sia con i collegamenti pubblici. Solo poco più di un terzo sono le scuole, statali e non, prive di barriere fisiche e, quindi, accessibili agli alunni con disabilità, con una differenza di quasi 8 punti tra le Regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno, sempre a sfavore di quest’ultimo (sempre dati Istat);
tra il 2010 e il 2022 gli stipendi dei docenti italiani della scuola secondaria di secondo grado sono diminuiti del 10,7% in termini reali, mentre il valore medio europeo solo del 2,8%. Un docente della scuola secondaria superiore guadagna il 26% in meno di un lavoratore a tempo pieno con istruzione terziaria (nella media Ue solo il 6% in meno): l’Italia si colloca al penultimo posto, davanti solo all’Ungheria. Eppure, la motivazione dei nostri insegnanti rimane alta: il 95,9% dei docenti si dice soddisfatto del proprio lavoro (dati Censis 2023);
in generale - e poi mi fermo qui - sempre l’Istat nel suo rapporto annuale sulla situazione del Paese del 2023 - ha rilevato come la spesa pubblica per istruzione in rapporto al PIL mostri “un minore impegno del nostro Paese per questa funzione rispetto alle maggiori economie europee” (4,1% del PIL in Italia nel 2021 contro il 5,2 in Francia, il 4,6 in Spagna e il 4,5 in Germania) e in generale rispetto alla media dei 27 Paesi Ue (4,8%).
Quindi, interrogazione su Manzoni a parte, che ci vogliamo fare noi con la scuola?
Cose da vedere, leggere, ascoltare
Figli di N.N. Mi hanno suggerito di vedere, e l’ho visto, “Il più bel secolo della mia vita”, il film di Alessandro Barbani con Sergio Castellitto e Valerio Lundini, con la bella canzone di Brunori Sas “La vita com’è” a fare da colonna sonora. Al centro c’è un tema che conoscevo solo per sentito dire: in Italia c’è una legge del 1983, chiamata “legge dei 100 anni”, che impedisce ai figli non riconosciuti alla nascita - i cosiddetti N.N. - di avere informazioni sull’identità dei genitori biologici se non dopo che hanno compiuto 100 anni, appunto. Nel 2012 una sentenza della Corte europea ha condannato la “legge dei 100 anni” perché impedisce l’esercizio di due diritti fondamentali, quello alla conoscenza della propria identità personale e il diritto alla salute, non permettendo di prevenire patologie familiari. Nel corso degli anni si è espressa anche la Consulta dichiarandone incostituzionale una parte e ci sono state diverse sentenze dei vari tribunali italiani che hanno fatto giurisprudenza contribuendo a scardinarla, ma manca ancora una legge nazionale che faccia ordine.
Il film, nel dipanarsi dell’incontro tra i due protagonisti, sottende la grande domanda: i figli, di chi sono? Di chi li mette al mondo o “di chi li campa e gli pulisce il culo”, come dice il ruvido centenario interpretato da Castellitto? È l’enorme interrogativo che sta dietro anche a tutto il delicatissimo dibattito sulla gestazione per altri e su tutte le forma di maternità non biologica.
Vedendo il film, che racconta una storia che riguarda in Italia 400mila persone, ho pensato che i figli sono sempre e solo di sé stessi, e basta. In quanto cittadini, però, sono portatori di diritti dei quali lo Stato dovrebbe farsi carico, trovando una sintesi equilibrata con il diritto all’oblio delle donne che non riconoscono i bambini che partoriscono, tutelandoli entrambi.
Benessere, ovvero. Nelle scorse settimane ho letto “Wellbeing. Il futuro umano e digitale del benessere”, il nuovo libro di Alessio Carciofi, che è docente universitario ed esperto di marketing e digital wellbeing, ovvero benessere digitale. In maniera molto divulgativa, Carciofi racconta come, complice la pandemia, il teme del “benessere” stia diventando oggi centrale in tutti i contesti sociali: per gli individui, in famiglia, in azienda. E stia mettendo in crisi tutta una serie di principi dati per assodati, come quelli della produttività, del multitasking, dell’urgenza costante. Una “rivoluzione” particolarmente evidente nel mondo del lavoro dove, sempre più, e in modo particolare i più giovani, considerano fondamentale ciò che l’organizzazione per la quale lavorano può fare per farli “stare bene” (anche stipendio a parte).
Parlare di benessere oggi, però, significa in larga parte parlare anche di “benessere digitale” perché la tecnologia permea le nostre vite, sempre e ovunque. E stare bene significa anche avere un rapporto sano coi propri device, con la rete e la connessione costante. Il tema investe anche la genitorialità, e infatti Carciofi gli dedica un capitolo parlando della technoference, ovvero dell’interferenza tecnologica nelle relazioni familiari.
C’è un punto dal quale prende avvio tutta la riflessione contenuta nel libro: la constatazione del fatto che viviamo in un’epoca di time scarcity, di “povertà di tempo” (è un tema che mi sta molto a cuore, ne ho già parlato qui, in una delle prime newsletter), con le giornate che, invece che allungarsi, si accorciano sempre più mentre noi continuiamo a correre, anche per l’uso che facciamo della tecnologia. Ho trovato questo libro una lettura interessante perché incrocia questioni diverse - da come dormiamo (male: 13,4 milioni gli italiani che soffrono di insonnia) ai nuovi modelli di leadership in azienda - restituendo un quadro articolato di cosa significhi oggi “stare bene”. Ci sono, in appendice, anche 21 consigli pratici di benessere digitale. L’ultimo è andare a buttare la pattumiera senza telefono: io lo sto facendo.
Se ti interessa approfondire, con Carciofi ho poi fatto una chiacchierata, che è diventata questa intervista: “La sfida del wellbeing tra mission aziendale e vita digitale”. È focalizzata sui temi del lavoro e del turismo, ma il quadro di riferimento vale in generale.
La montagna (da leggere). Se ti piace la montagna, ti segnalo un nuovo quotidiano, online da un paio di settimane, che ne parla. Si chiama L’AltraMontagna e ogni giorno pubblica storie, interviste e approfondimenti sulle questioni che interessano oggi le “terre alte” dal punto di vista ambientale, climatico, sociale, economico, demografico, culturale. È curato da un comitato editoriale di esperti e il profilo IG è una porta di accesso ben curata ai contenuti.
A proposito di villaggio. Dieci giorni fa è uscito il nuovo podcast (sull’app, a pagamento) del magazine per genitori UPPA. Si intitola, guarda un po’, “Ci vuole un villaggio”. Al di là della particolare coincidenza di titolo con questa newsletter, è un segnale ulteriore che del villaggio - di ricostruirlo, comunicarlo, condividerlo - c’è evidentemente un gran bisogno.
Intanto, da questo di villaggio, anche che per questa settimana, è tutto. Ci sentiamo tra due settimane!
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“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che sembrano lontane tra loro e che, invece, hanno molto più a che fare l’una con l’altra di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin.