#8 Ci vuole un villaggio I Città a misura di bambini: l'esperienza della Cinnica di Bologna
Un gruppo di associazioni sta provando a "fare lobby" per cambiare il modo di vivere la città adottando il punto di vista dei "cinni" (e non è solo una questione di altalene e campi da calcetto)
Ciao!
Come stai?
Io devo confessarti che, dopo averne parlato nell’ultima newsletter, il pensiero sulla città come luogo “giusto” nel quale vivere insieme ai bambini ha continuato a girarmi per la testa per giorni. Sarà che, per la prima volta in quarant’anni di vita a Milano, nelle ultime settimane ho avvertito distintamente il pizzicore alla gola, al naso e agli occhi causato dallo smog, sarà che la vita urbana inizia ad andarmi sempre più stretta, ma il pensiero è diventato un rovello.
A un certo punto, però, mi sono detta che, dal momento che un immediato trasferimento ad alta quota o in riva al mare non è (ancora) all’ordine del giorno e che comunque lamentarsi e basta è sempre la via peggiore per affrontare un qualsivoglia rovello della mente, forse valeva la pena prendere la questione da un altro lato. Provando a mettere il naso in maniera concreta nella questione della vivibilità delle città, in un’ottica che fosse costruttiva - che poi vuole essere l’approccio di fondo di questa newsletter. E, allora, mi sono messa a cercare esperienze, soluzioni, idee di chi sta provando a rendere le città italiane più vivibili per i bambini, e di conseguenza per tutti. Ne ho scelta una, da raccontare. In fondo ci sono anche un po’ di dati e una mia riflessione a margine, ma questa settimana voglio partire da qui: dalle cose che si fanno.
L’esperienza della Consulta Cinnica di Bologna
Spulciando in rete tra diversi progetti a tema “città a misura di bambino” mi sono soffermata istintivamente su questo perché ha un nome che ha attirato subito la mia attenzione. Ho zio e cugine bolognesi - pur non avendo origini emiliane - e l’ho imparato negli anni che i “cinni” sono i bambini, i ragazzi. E la “Cinnica”, ovvero la “Libera consulta per una città amica dell’infanzia e dell’adolescenza” è nata a Bologna nel 2019 proprio con l’obiettivo di provare a cambiare la città usando come metro di misura i “‘cinni”, i più piccoli.
Poi, ho fatto una chiacchierata al telefono con Agathe Gillet, che è la portavoce della Consulta, e ho capito che la loro poteva essere una bella iniziativa da raccontare perché ha alla base un principio sul quale non avevo mai riflettuto troppo: quello dell’assetto dello spazio - urbano, in questo caso - come fattore in grado di favorire la sperimentazione dell’autonomia, la gestione del tempo e, più in generale, la “presa sulla propria vita” da parte dei bambini. Con una visione forse un po’ riduttiva, ho sempre associato l’idea di “qualità della vita” urbana per lo più alla (non) salubrità dell’aria che si respira, al verde disponibile, alla quantità e al livello dei servizi pubblici a disposizione delle famiglie, dal numero di pediatri e nidi alla tipologia di offerta scolastica. L’idea della Cinnica, però, nasce da altri presupposti, molto simili a quelli che nei primi anni Novanta hanno ispirato il modello pionieristico di Fano “città dei bambini e delle bambine” ideato dal pedagogista Francesco Tonucci (io ne sapevo poco, ho trovato un po’ di storia di quel progetto qui). Ecco, allora, cosa mi hanno raccontato i promotori della Consulta bolognese.
Agathe, come nasce la Consulta Cinnica?
Nasce nel 2019 da un gruppi di associazioni di Bologna che si chiedevano come fare per avere più voce in capitolo su tutto ciò che riguardava l’infanzia e lo spazio urbano. Da lì, è nato un Manifesto, che chiunque può sottoscrivere. Oggi siamo una ventina di associazioni e molti singoli cittadini, che fanno pressione su questi temi, hanno stilato un elenco di proposte concrete per cambiare lo spazio urbano e si danno da fare per realizzarle.
Scrivete nel Manifesto che “a Bologna non esistono spazi sicuri dove muoversi in autonomia e i luoghi di gioco per i bambini tra i 3 e i 10 anni si sono ridotti: meno di 40 bambini su 100 si ritrovano nei giardini pubblici, 25 in cortile, 16 in parrocchia, 14 in campi o prati, poco più di 6 su strade poco trafficate”. Numeri probabilmente molto simili a quelli di altre città italiane.
Proprio questo è il punto: la strada ha perso la funzione di scambio, di esperienza, di gioco che aveva per le generazioni precedenti. I bambini non si vedono più per strada. Dagli anni Novanta abbiamo assistito a un declino del gioco spontaneo, che aveva il suo centro nelle strade, nei cortili, nei parchi. Oggi i bambini sono “chiusi” in casa o “trasportati” da un luogo all’altro. Succede anche in altri Paesi, ma in Italia non siamo messi bene per niente. Basti vedere il dato sul tragitto casa-scuola fatto in maniera autonomia dai bambini della scuola primaria: in Finlandia è del 90%, in Germania del 70%, in Francia del 40%, in Italia appena del 6-7%. Questo ha conseguenza sul piano fisico, perché abituiamo i bambini a muoversi poco, ma anche psicologico: i bambini non hanno presa sul proprio tempo libero, non decidono cosa fare, con chi giocare, oltre a non capire esattamente dove vivono. Questo dell’autonomia è un aspetto di cui non si discute mai in relazione allo spazio urbano. Pensiamo al pedibus: quando viene proposto, se ne parla in relazione alla riduzione del traffico e dell’inquinamento, ma non a ciò che comporta per l’autonomia dei bambini.
In effetti, sembra che ai bambini manchi davvero “tempo libero”. L’assetto dello spazio influisce anche sui tempi della nostra vita, e viceversa?
Certamente. Molto è legato all’agenda di noi genitori: lavoriamo tutto il giorno, i pomeriggi portiamo i bambini alle attività anche perché dobbiamo “riempire” quelle ore, ma così facendo viene meno il tempo nel quale i bambini possano organizzarsi tra di loro per vedersi. Sono bambini isolati, che vedono poco gli amici in contesti non strutturati nei quali poter giocare in modo informale: una modalità nella quale, invece, si sviluppano tantissime abilità sociali. Questo anche perché mancano gli spazi nei quali poterlo farlo. I progetti che noi proponiamo partano da questa constatazione: servono luoghi urbani liberi e sicuri dove le bambine, i bambini e gli adolescenti possano vivere a pieno diritto il proprio tempo libero.
Vissuta così, la “piazza” diventa anche uno luogo di inclusione sociale.
Quando i bambini hanno l’occasione di giocare liberamente nel proprio quartiere con chi vogliono, si mescolano tra di loro, fanno amicizie diversificate e più interessanti, finendo a fare da traino anche per le conoscenze tra genitori e agendo da collante sociale. Quando siamo noi a portarli a casa di questo o di quell’amichetto, succede molto meno.
Prima citavi gli adolescenti. Ci sono anche loro.
E anche loro non hanno luoghi nei quali ritrovarsi, in una fase della vita nella quale, invece, hanno un gran bisogno di socializzare, di vedersi e stare con gli amici. Nel nostro Manifesto sottolineiamo come lo sport giochi un ruolo centrale nella crescita dei ragazzi e delle ragazze e come non vada relegato solo in spazi appositi, ma vissuto anche nei luoghi condivisi della città aumentando le aree di gioco a libera fruizione nei parchi - che, però, non vuol dire solamente campi da calcio perché questo significa escludere le ragazze, che invece hanno diritto allo stesso modo allo spazio pubblico. In Europa ci sono esempi virtuosi in questo senso, realizzati coinvolgendo i ragazzi stessi attraverso iniziative di autoprogettazione che, se ben gestite, sono importanti anche sul piano formativo come esercizio di partecipazione e democrazia.
Un tema è quello della mobilità. Bologna è appena diventata - con non poche polemiche - la prima “città 30” d’Italia: un’iniziativa che voi avete sostenuto con forza.
L’Italia è un Paese con 10 milioni di minori nel quale circolano 39 milioni di auto e dove le zone a traffico limitato sono meno dell’1% della superficie dei capoluoghi: gli italiani tendono a usare la macchina molto più degli altri europei (66% contro 50%), ad esempio solo 3 studenti su 10 raggiungono la scuola a piedi. In questo contesto, rallentare è un bel cambio di paradigma: significa riconoscere più spazio e più tempo a chi va a piedi o in bici. È chiaro che in una città più “lenta” anche i genitori hanno meno paura del traffico e di lasciare che bambini e i ragazzi attraversino e vivano le strade in autonomia.
La Consulta ha lanciato un bollino speciale per i “Negozi amici”: gli esercizi commerciali che lo espongono sono quelli nei quali bambini e ragazzi che possono avere bisogno di un aiuto - ricaricare il cellulare, aspettare qualcuno, riempire la borraccia, ripararsi dalla pioggia - sanno di poterlo fare.
L’idea alla base è che, se bambini e ragazzi che vanno a scuola da soli o si ritrovano per passare del tempo insieme hanno un problema, possono rivolgersi alla comunità, come si faceva un tempo. Una volta era una cosa naturale, adesso quel legame va ricostruito. I bollini sono un strumento per rassicurare i genitori e creare, anche a livello di percezione, l’idea che la città sia accogliente per i bambini.
Dalle proposte alla pratica: come funziona l’interlocuzione su questi temi con chi poi decide e ci mette i soldi, ovvero l’amministrazione comunale?
Non è facile. Noi partecipiamo ai consigli comunali, alle commissioni, portiamo le nostre proposte in ogni sede, poi dipende dalla sensibilità di chi si trova a decidere in quel momento, dalla disponibilità di fondi, da questioni politiche. Spesso finisce che si adottino soluzioni che non sono all’altezza di una città europea. Purtroppo, sono temi che non hanno priorità. Eppure, non sono cose nuove, c’era già tutto nella “città dei bambini” di Tonucci di trent’anni fa, alla quale ci ispiriamo anche noi: “La città che realmente vuol creare spazi per i bambini non deve più progettarli per loro. Deve offrire spazi ricchi, vari, belli, frequenti e facilmente accessibili per tutti i cittadini. Spazi pubblici con dislivelli, vegetazione, materiali diversi, adatti per la sosta, per l’attività fisica, per il tempo libero. Spazi accessibili a tutti”.
Qualche idea concreta. Prima di questa chiacchierata con Agathe Gillet avevo letto le proposte contenute nel Manifesto della Consulta Cinnica (le trovi qui). Oltre a quelle alle quali ha accennato lei nell’intervista, ne riporto qualcun’altra, per capire di che cosa stiamo parlando nel concreto:
cortili delle scuole accessibili anche fuori orario e cortili aperti anche nei palazzi vietati ai bambini dai regolamenti condominiali (sì, ci sono ancora regolamenti condominiali che vietano ai bambini di giocare in cortile);
giochi nei parchi meno tradizionali e più “sfidanti”, che stimolino la fantasia e l’autonomia fisica e di movimento, oltre che il gioco con elementi naturali come la sabbia e l’acqua;
creazione, in spazi pubblici in via di riqualificazione, di zone apposite per il gioco creativo e per l’organizzazione di attività e l’aggregazione tra persone di età differenti, famiglie e bambini anche nel tempo libero;
organizzazione periodica di mercatini per i bambini come momenti d’incontro e di gioco nei quale realizzare un libero scambio di oggetti (di quanto sia interessante questa attività, ho parlato proprio nella primissima newsletter del Villaggio raccontando l’esperienza davvero bella fatta insieme a mia figlia qualche mese fa);
creazione di caffè associativi convenzionati con il Comune, ovvero esercizi pubblici il cui scopo è essere un centro di riferimento per infanzia e famiglie durante i momenti liberi.
Rileggendole, capisco bene cosa intenda dire Agathe con la sua ultima risposta: quando si parla della fattibilità di certi progetti, si adduce sempre il problema della mancanza di fondi, ma il tema centrale è lo sguardo sulle cose: se manca quello, è evidente che il massimo che si continuerà a progettare sarà il solito parchetto risicato con uno scivolo e due altalene.
Un po’ di numeri. Prima di chiudere (per ora) il discorso sulle città, però, vorrei fare un passo indietro, risalendo a monte della questione. Ovvero, perché parlare della vivibilità delle città per i bambini?
Qualche risposta si trova in un report di “Save the Children” dello scorso autunno dedicato alle periferie urbane. La prima è strettamente quantitativa: dei 10 milioni e 493mila bambini e adolescenti italiani tra 0 e 19 anni, 3 milioni e 785mila, cioè quasi 2 su 5, vivono nelle 14 città metropolitane del nostro Paese. Realtà nelle quali, soprattutto al Sud, si registra una maggiore concentrazione di cittadini con redditi bassi, che spesso coincide con una minor presenza di servizi per l’infanzia. Nelle città metropolitane vivono anche 2 bambini su 3 senza casa o fissa dimora; qui è maggiore, rispetto alla media nazionale, la concentrazione di scuole senza certificato di agibilità (70%) e in 8 città metropolitane l’accesso al tempo pieno nella scuola primaria è significativamente inferiore alla media nazionale (38%) con le punte in negativo di Palermo (6,5%), Catania (9,5%) e Reggio Calabria (13,7%).
Anche gli spazi di verde pubblico fruibile dove trascorrere tempo all’aria aperta risultano in media inferiori nelle grandi città, con 16 metri quadrati teoricamente a disposizione di ogni bambino, contro i 19,5 della media nazionale. In generale, in Italia, per ogni bambino esistono 12 metri quadrati di aree sportive, 1,4 di parchi urbani, 1,05 di aree sociali/ricreative attrezzate, 0,59 di arredo urbano e solamente 0,4 di giardino/orto botanico a scuola (per molti bambini l’unico verde di cui possono usufruire). Tuttavia, non sempre questi spazi sono concretamente accessibili a bambini e bambine. Inoltre, per il 30,7% delle famiglie la carenza di mezzi pubblici è un limite concreto nella possibilità di raggiungere altri quartieri.
A proposito di verde urbano, c’è un altro dato che mi ha colpito: nella classifica annuale stilata da “Il Sole 24 Ore” sulla vivibilità delle città per i bambini, lo scorso anno al primo posto si è posizionata Siena. Se si vanno a guardare i singoli parametri di riferimento sui quali le città sono state valutate, però, per disponibilità di verde attrezzato (calcolato in mq per bambino) la città toscana è addirittura 68°. Se stiamo messi così nella città nella quale i bambini dovrebbero vivere meglio, chissà com’è la situazione, mi chiedo, a Catanzaro, che è ultima nel ranking generale.
Ultimo dato: secondo le stime dell’Onu, entro il 2060 i due terzi della popolazione mondiale vivranno in una grande città o in una metropoli (sempre più calda, alle nostre latitudini, tra le altre cose): forse, una riflessione seria sulla vivibilità urbana è davvero il momento di iniziare a farla.
Infine, una riflessione (mia). Di quanto mi ha raccontato Agathe Gillet parlando della Cinnica, mi ha colpito molto l’immagine dei bambini “trasportati” da un posto all’altro: è quello che ogni giorno facciamo in tanti, chi più chi meno, molto spesso a prescindere dai parchi e dalle piste ciclabili che abbiamo a disposizione. La dimensione dello spazio in cui viviamo si intreccia con quella dei tempi che scandiscono le nostre vite. Parlando della forma delle città e della loro vivibilità, è chiaro che il discorso non si esaurisce sul piano strettamente urbanistico. Però lo spazio può creare le condizioni: date un cortile a un gruppo di bambini e sono abbastanza certa che, a un certo punto, una palla salterà fuori.
Cose da leggere, vedere, ascoltare
La scuola, oggi. È uscito nei giorni scorsi “Lettera alla scuola”, il libro che l’insegnante e scrittore Christian Raimo ha scritto insieme ai suoi studenti di terza di un istituto superiore romano. Seguendo le orme di “Lettera a una professoressa” di don Milani, prof. e ragazzi discutono e si interrogano insieme su cosa sia la scuola e cosa voglia dire viverla avendo 16 anni oggi. Il libro, la cui copertina è stata disegnata da Zerocalcare, non l’ho ancora letto, ma ho sentito un intervento di Raimo durante il podcast di Internazionale “Mondo” nel quale racconta come è nato e, soprattutto, com’è la scuola vista da dentro (lo trovi a questo link, nell’episodio del 14 febbraio, a partire dal minuto 11). A proposito di tutto il discorso fatto nelle prima parte di questa newsletter, mi ha molto colpito quello che Raimo racconta a proposito della solitudine dei ragazzi.
Poi, sono successi i fatti di Pisa, con le manganellate della Polizia agli studenti che stavano manifestando per chiedere il cessate il fuoco a Gaza. E mi sono molto ritrovata nelle parole della giornalista Marianna Aprile:
“Li facciamo studiare in scuole fatiscenti, gli offriamo una Sanità sempre più carente, sempre meno prospettive di lavoro. Li accusiamo di essere passivi e abulici e appena provano a manifestare in nome di un’idea o di un timore li manganelliamo. Questo Paese i giovani li odia”.
L’erba del vicino è sempre più verde… o forse no? Sul suo profilo Instagram @mammadimerda ha avviato un ciclo di dirette molto interessanti con genitori italiani che vivono all’estero. L’obiettivo è raccontare com’è l’essere genitori in Paesi diversi mettendo a confronto sistemi di welfare, modelli scolastici e di assistenza sanitaria differenti. Ho seguito la prima di queste live nella quale sono intervenute due mamme che vivono in Austria. È stato molto interessante: spesso abbiamo l’idea che fuori dall’Italia sia il bengodi, invece su molte questioni tutto il mondo rischia di essere ancora Paese (come nel caso del forte disequilibrio dei carichi di cura o dei calendari scolastici non troppo migliori dei nostri, giusto per fare due esempi). Però, è venuto fuori anche che la scuola austriaca è molto più performativa e molto meno inclusiva della nostra tanto che le classi speciali, qui abolite più di 40 anni fa, lì esistono ancora. Certo, poi ci sono anche cose che in Austria funzionano decisamente meglio che in Italia, ma un confronto oggettivo è utile a prendere le misure. Aspettiamo le prossime puntate (quella sull’Austria, se vuoi recuperarla, è salvata qui).
Facciamo Villaggio, una nuova rubrica
Prima di salutarci, un’idea per il prossimo numero e per quelli a venire. Ho pensato a una rubrica per raccontare, in maniera breve, quelle che, senza troppa fantasia, vengono chiamate “buone pratiche”: progetti, idee, soluzioni, anche semplici o molto locali, che servono però a “fare villaggio” e che, magari, possono essere uno spunto replicabile altrove. Me ne sono già segnate alcune di cui ti vorrei parlare, ma se ti viene in mente qualche iniziativa di cui sei a conoscenza e vuoi condividerla, sono tutta orecchi: scrivimi e la facciamo girare!
Intanto, anche per questo lunedì è tutto! Che sia una bella settimana 🧡 Io, se tutto va bene, il prossimo week-end sarò a Napoli e non vedo l’ora di vedere il mare 🧡
Noi ci sentiamo tra due!
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“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che sembrano lontane tra loro e che, invece, hanno molto più a che fare l’una con l’altra di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin.