#12 Ci vuole un villaggio | La scuola "non è una gara"
Un'altra scuola è possibile, anzi esiste già. Ecco come è fatta
Ciao!
La newsletter di questa settimana arriva con un giorno di ritardo rispetto all’appuntamento solito del lunedì. Succede perché sabato scorso sono stata a seguire i lavori di un convegno sulla scuola e volevo scriverne subito, ma mi sono presa la giornata di domenica per riposare (piantando fiori sul balcone, perché il cervello ha bisogno di ossigenarsi anche facendo andare le mani, come vedremo più avanti).
Una bella notizia: il villaggio “dal vivo”
Prima di raccontarti del convegno, però, una bella notizia. Quando è nata questa newsletter, ho subito pensato che mi sarebbe piaciuto, prima o poi, parlare del villaggio anche “dal vivo”, direttamente con le persone, fuori dalla rete e sul territorio.
Ecco, ora che è tutto confermato, posso dirlo: questa cosa succederà presto. C’è già una data: sabato 25 maggio alle 16, alla biblioteca Tilane di Paderno Dugnano, modererò un incontro dal titolo “Ci vuole un villaggio. L’importanza delle reti sociali per una genitorialità più felice”, un appuntamento che chiuderà il ciclo di eventi della rassegna “Be family”. Non sarò da sola, ovviamente, a parlare del villaggio, ma con me ci saranno due professioniste che stimo molto per il lavoro che fanno e con le quali tante volte ci siamo confrontate sui nostri temi: Giovanna Gorla, psicologa e psicoterapeuta, formatrice per i servizi per la prima infanzia, e Lia Calloni, imprenditrice (e giovane mamma di tre), fondatrice del progetto Gaia Family Hub. Avremo modo di parlarne nelle prossime settimane, ma se vuoi segnarti la data sul calendario, a questo LINK trovi tutti i dettagli e ti puoi già iscrivere.
A proposito di scuola
Ma ora veniamo alla scuola. Il convegno del quale ho seguito i lavori aveva come titolo “La scuola non è una gara” ed è stato organizzato dal Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti fondato e diretto dal pedagogista Daniele Novara. Una giornata intera, che si è svolta in un bel teatro nel centro storico di Piacenza, durante la quale sul palco si sono alternati pedagogisti, scrittori, insegnanti, sindacalisti, giornalisti e io ho riempito molte pagine di appunti del mio quaderno. Proverò a raccontarti, per concetti e parole chiave, le cose che più mi hanno colpito. Partiamo!
Un bel colpo d’occhio. Dopo una bella passeggiata tra i vicoli del centro di Piacenza, quando dalla stazione sono arrivata al teatro dove era in programma il convegno, all’improvviso, mi sono trovata davanti una lunghissima fila di persone pronte a entrare: quasi tutte insegnanti (la stragrande maggioranza donne), moltissime della scuola primaria, ma non solo. In totale, circa 900 persone, provenienti, anche in gruppi, da diverse regioni, mi hanno raccontato gli organizzatori. Ci lamentiamo spesso delle cose che nella scuola non vanno. Ecco, l’impressione che ho avuto per tutta la giornata è che lì ci fosse, invece, la scuola che funziona, che ha voglia ancora di mettersi in discussione, quella che nonostante le tante difficoltà, strutturali, burocratiche, relazionali, non smette di crederci.
Cosa non dovrebbe essere la scuola. La locandina realizzata per il convegno dall’artista Marco Ceruti mostra un intrico di vie lungo le quali si trovano, in punti diversi, bambini e adulti insieme. L’intento - hanno spiegato i pedagogisti del Cpp - era rappresentare un’idea di scuola fatta di percorsi differenti, nei quali diversi sono i punti di partenza e gli arrivi di ciascuno, perché tutti diversi sono i bambini e i ragazzi, le loro storie, i loro sogni e obiettivi. Una scuola che, appunto, non sia una gara fatta di prestazioni da misurare, nozioni da trasmettere, giudizi da emettere, ma che sia piuttosto “esperienza”. Una scuola, insomma, nella quale non c’è né da vincere né da perdere.
L’ansia degli studenti. Il punto è che, nei fatti, le cose non stanno esattamente così. Quello che i pedagogisti osservano sempre più spesso tra gli studenti è, infatti, un’ansia da prestazione crescente, che dai cicli più alti via via sta percolando più in basso, fino a riguardare anche i bambini della primaria. Il Cpp ha condotto un sondaggio tra 2800 studenti della secondaria di secondo grado (i ragazzi delle superiori) per capire come stanno e come vivono la scuola. Il 71,3% ha detto che vorrebbe una scuola senza voti. Il motivo, per l’87,5%, è che verifiche e interrogazioni producono “ansia”. Interessante - hanno osservato i pedagogisti a partire dai risultati del sondaggio - è il fatto che si tratti di una preoccupazione che non origina tanto dalla competizione tra pari, quanto piuttosto dagli adulti. Per sgombrare il campo da equivoci: la questione non è la “strizza” sana, quella che, a scuola come nella vita, permette di buttarsi e misurarsi, prima di tutto con sé stessi, ma quella basata sul giudizio inibente, che a lungo andare rischia di essere paralizzante e che gli studenti di oggi patiscono evidentemente molto.
“Il modello - ha sottolineato Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia all’Università di Milano-Bicocca - è quello performativo, imposto dall’esterno, del ‘bravo alunno’ destinato a diventare poi ‘bravo professionista’ solo se capace di seguire parametri produttivi che cambiano in continuazione e rispetto ai quali, se non ti adegui, sei fuori”.
Cambiare tempi e spazi. In realtà - è una delle belle notizie che ho colto ascoltando -molte sono le scuole e i singoli docenti che, in linea con principi pedagogici aggiornati, già operano al di fuori di questa logica performativa basata sulla competitività e sul voto. Per tutte le altre, le prime variabili sulle quali agire sono quelle, basilari, del tempo e dello spazio, da “disarticolare” grazie all’autonomia scolastica per superare la rigidità dell’orario fisso per materie e della lezione frontale seduti in aula. Prassi consolidate che, tuttavia, non rispettano le modalità di apprendimento di bambini e ragazzi sul piano neurobiologico, ma anche dell’attribuzione di senso a quello che si sta facendo. Lezioni all’aperto, con la possibilità di vivere gli spazi in modi differenti e la compresenza di materie e insegnanti diversi, condotte secondo pratiche collaborative tra gli alunni, invece, non solo fanno sì che gli studenti imparino di più e meglio, ma che riconoscano significato e attribuiscano valore a quello che gli adulti chiedono loro di fare, hanno spiegato i pedagogisti.
Il cervello ha bisogno di ossigeno e movimento. Non sono idee naïf, da scuola “alternativa”. Lo ha spiegato molto bene Alberto Oliverio, professore di Psicobiologia alla Sapienza di Roma, raccontando come funziona il cervello umano, che giunge a piena maturazione solamente intorno ai 20 anni e che nell’infanzia e nell’adolescenza è capace di tenere livelli di attenzione per intervalli limitati di tempo (per bambini di 6/7 anni intorno ai 15 minuti e poi via via a crescere per arrivare all’ora di attenzione solo verso i 16/17 anni). “Il cervello umano è impostato sulla motricità - ha spiegato Oliverio -. Modalità di insegnamento che vedono bambini e ragazzi attivi e al centro del loro mondo aiutano ad apprendere meglio e ad avere tempi di attenzione più lunghi”. E poi, c’è l’agire insieme: “Come avviene nella pratica del gioco, gli apprendimenti di gruppo sono quelli che rendono di più”. È per questo che attività come l’apprendimento recitato funzionano bene, perché permettono ai bambini di associare movimenti e concetti astratti, assecondando la modalità attraverso la quale la loro mente funziona e impara. Quattro o cinque ore di lezioni statiche una via l’altra, invece, sono una “martellata in testa”, ha detto Oliverio.
Al contrario, fare movimento in apertura di giornata, tra un’ora e l’altra, dare loro la possibilità di muoversi “contribuisce a ossigenare il cervello, migliora l’attenzione e i processi cognitivi, spezza la tensione”. Per questo, la classica punizione dello “stare fermi” per gli studenti e le classi più vivaci è l’esatto opposto di quello che andrebbe fatto.
I bambini hanno voglia di imparare. Su questi aspetti è tornato anche Roberto Farnè, docente di Pedagogia del Gioco e dello Sport all’Università di Bologna, partendo da una domanda: “Si dice che a scuola si ‘fa’ matematica o storia, ma cosa ‘fanno’ veramente i bambini con le mani? I bambini hanno voglia di imparare, l’apprendimento è per loro una questione biologica. Il punto è come mantenere viva questa voglia, come creare le condizioni nelle quali imparare sia bello e piacevole”. Movimento e corpo, di nuovo, indicano la via: se i bambini costruiscono intelligenza e concetti astratti a partire da quello che vedono, che sentono, che fanno materialmente, la didattica non dovrebbe che essere “ricerca di strategie di esperienze”.
La questione delle questioni: i voti. La prima delle proposte avanzate dal pedagogista Novara e dal suo Cpp in chiusura di convegno - un punto sul quale Novara si spende da tempo - è quella di una “scuola senza voti” - che non vuol dire senza valutazioni. Ma cosa significa, sia sul piano concreto che su quello ideale? Sul primo aspetto è stata molto interessante la disamina normativa che ha fatto Manuela Calza, insegnante e sindacalista. Il presupposto, che non viene messo in discussione, è che la valutazione (non il voto) sia un aspetto importante e imprescindibile della funzione didattica. La legge attualmente in vigore prevede, però, che il “voto” netto sia obbligatorio solo per la valutazione sommatoria finale (per intenderci, la pagella), ma che nella valutazione in itinere durante il corso dell’anno scuole e insegnanti possano decidere in autonomia di usare formule, linguaggi, modalità descrittive differenti e più articolate per dar conto della complessità del percorso dei singoli alunni e alunne.
In questo spazio di manovra si gioca, dunque, la possibilità di una valutazione che non sia meramente classificatoria e orientata al risultato, che tenga conto del processo più che del risultato, che consideri l’evoluzione del percorso scolastico sulla base delle caratteristiche di ciascun alunno o alunna, che non stigmatizzi l’errore ma lo valorizzi come tappa fondamentale dell’apprendimento. È per questo che nelle scorse settimane i pedagogisti sono insorti in massa davanti all’ipotesi ventilata dal Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara di tornare anche alla scuola primaria alla valutazione sintetica (il voto netto, anziché quello descrittivo attualmente in vigore), perché rappresenterebbe un grosso passo indietro basato sull’idea di una scuola selettiva e classificatoria.
Competere… ovvero? Sull’altro piano, quello più strettamente ideale, mi ha colpito la riflessione sul tema del pedagogista Farnè, che si è chiesto se c’è un modo per intendere la competizione in maniera “non ideologica”. Perché essere valutati, anche rispetto agli altri, un senso credo che lo abbia, ho sempre pensato anche io. “La competizione - dal latino cum-petere, aspirare, dirigersi insieme - implica un atto di socialità e condivisione, del campo e delle regole di gioco. Comporta - ha detto Farnè - l’accettazione del confronto, il mettersi in gioco insieme agli altri, per conoscere e riconoscere le proprie capacità”. La competizione intesa, dunque, come “ricerca del meglio di sé insieme agli altri”: una bellissima definizione, mi pare.
Una scuola che si può fare. Di tutto questo discorso sui voti e sulle modalità diverse di fare scuola, ho molto apprezzato l’approccio proposto da Daniele Novara e dal suo Cpp, condiviso da tutti gli ospiti che sono intervenuti.
“È inutile aspettare la trasformazione epocale della scuola - ha detto subito in apertura Novara -, ogni insegnante può essere già il cambiamento. Anche nelle condizioni più difficili che ben conosciamo, ciascun insegnante può essere un punto di riferimento, la persona che permette ai propri alunni di vivere un’esperienza liberatoria. Questa non è la scuola ‘alternativa’, è la scuola che si può fare, che tanti già stanno facendo”, ha aggiunto invitando gli insegnanti a usare tutti gli spazi di azione possibili.
In effetti, lo sappiamo, per esperienza diretta, senza bisogno di scomodare Maria Montessori: tutti, prima o poi nel nostro percorso scolastico, abbiamo incontrato insegnanti che, nel bene o nel male, quel percorso lo hanno segnato. Nel bene, può essere capitato che abbiano inciso così tanto da indirizzare strade, aspirazioni, visioni del mondo. È successo anche a me: se al liceo non avessi scoperto Dante grazie alle lezioni del burbero professor Tornotti, quasi certamente non avrei studiato lettere all’università e chissà che strade altre avrebbe preso la mia vita.
La lezione di Camus: riconoscenza. È successo anche a personalità ben più note, è stato ricordato durante il convegno, di vedere la loro vita cambiare grazie alla capacità di un insegnante di “vedere la quercia dentro la ghianda”, ha ricordato il prof. e scrittore Enrico Galiano, citando Platone. Come a Steve Jobs e Ingmar Bergman, o alla psicologa e scrittrice Silvia Vegetti Finzi, che dal palco ha raccontato con emozione come sia stato proprio il riconoscimento di un insegnante della preparazione di lei ragazzina femmina davanti a tutti compagni maschi a liberarla da stereotipi di genere e a cambiare il corso dei suoi studi e della sua vita (lo racconta nel suo “Una bambina senza stella”). È quello che è accaduto anche allo scrittore Albert Camus: fu il suo insegnante Louis Germain a riconoscere in quel bambino di umili origini una capacità di vedere il mondo unica e a incoraggiarlo a proseguire gli studi. Un sostegno che il premio Nobel non dimenticò mai, come attestano le bellissime lettere di riconoscenza al maestro raccolte nel libro “Caro signor Germain”.
E noi genitori? Mentre ascoltavo gli interventi dei pedagogisti - e le rotelline del mio cervello giravano all’impazzata - a un certo punto mi sono chiesta: ma noi genitori, in tutto questo discorso, come ci collochiamo? Se e come possiamo contribuire a questa disarticolazione di spazi, tempi e prassi, anche a fronte della tensione che spesso caratterizza oggi i rapporti tra docenti, studenti e famiglie (ne avevamo parlato qualche tempo fa qui)? In una pausa dei lavori, ho girato la domanda a Raffaele Mantegazza. “La famiglia è il primo luogo da quale togliere ogni idea di gara e performance. Se il bambino che torna a casa con un brutto voto trova un genitore che non lo punisce, ma cerca di aiutarlo a capire dove ha sbagliato e, soprattutto, non fa confronti con gli altri, siamo già un passo avanti”, mi ha detto. “I genitori svolgono un ruolo di affiancamento fondamentale, non possono entrare nella didattica, certo, ma possono lavorare perché i ragazzi abbiano un’esperienza positiva, anche a partire da gesti molto semplici, come invitare gli amichetti a casa per fare i compiti insieme. Io credo - ha aggiunto - che la scuola si possa salvare solamente con un’alleanza tra insegnanti, studenti e genitori, soprattutto se i genitori sostengono gli insegnanti più innovativi, quelli che più hanno a cuore i ragazzi. I docenti vivono spesso una situazione di solitudine e di fatica: alla volte, basta solo una parola, un grazie per sostenere il loro lavoro”. Un atteggiamento basato sul rispetto dei ruoli, che parte dal riconoscimento della professionalità dei docenti.
Mea culpa. Per chiudere, devo fare una confessione. Sono andata a questo convegno sapendo che avrei ascoltato cose meravigliose, e che mi sarei arrabbiata moltissimo per il fatto di non riscontrarle, non tanto nella mia esperienza personale, quanto nel percepito comune sulla scuola. Sono anni che intervisto pedagogisti che mi raccontano come la scuola dovrebbe essere e poi ho la sensazione che, nella pratica, si vada nella direzione opposta. Invece, non è andata così. Non perché non abbia ascoltato cose interessanti, ma perché l’entusiasmo e la partecipazione che ho colto tra il pubblico degli insegnanti mi ha riconciliato con la visione di una scuola che forse ha tanto ancora da cambiare e migliorare, ma che probabilmente ha già dentro di sé le migliori energie per poterlo fare, se adeguatamente sostenuta.
W il 25 aprile
Poi, sono uscita dal convegno e ho letto le notizie sul “caso Scurati”: mi sono cadute le braccia, e mi sono arrabbiata per davvero.
🌹 Tra pochi giorni è il 25 aprile: è uno dei pochi momenti nei quali, ovunque sia, qualunque cosa stia facendo, sento forte il legame con questo bellissimo e malandato Paese. Forse, è perché la prima canzone che ricordo di aver imparato da bambina è stata “Bella ciao”, insegnatami, quando avevo quattro anni, dalla mia mitica zia Giusi, che è anche l’ostetrica che mi ha fatto nascere: quando dici l’imprinting! Da qualche settimana sul mio comodino c’è "La resistenza delle donne”, il libro di Benedetta Tobagi che racconta le donne che hanno fatto la Resistenza, quella metà della Storia che, come avviene dalla notte dei tempi, nessuno si premura mai di ricordare e rendere patrimonio condiviso. Leggerlo sarà quest’anno il mio modo di onorare il 25 aprile.
Ed eccoci arrivati ai saluti: anche questo lungo numero tematico volge al termine. Come sempre, se vuoi dirmi cosa ne pensi, scriviamoci: sulla scuola, io credo, c’è un grande bisogno di confronto. Seguire questo convegno e scriverne a me ha fatto molto bene, quindi se ti va, andiamo avanti a parlarne:
Prima di salutarti, un appuntamento: il fine settimana del 4 e 5 maggio sarò a Milano, negli spazi dell’hub Stecca 3 di via de Castillia, a seguire gli incontri di “Ensemble. Il festival #nofilter sulla genitorialità”, una due giorni in cui si parlerà di cura, lavoro, diritti riproduttivi, disparità di genere, nuove narrazioni sulla genitorialità e ci saranno workshop per genitori e attività per bambini (trovi qui il programma completo). A ispirare la manifestazione l’idea del “ritorno al villaggio”: di villaggio si sta finalmente tornando a parlare sempre più, ed è una bellissima notizia. Se ci sarai, ci vediamo lì.
Altrimenti, qui ci sentiamo tra due settimane… o forse anche un po’ prima (sto lavorando a una novità, poi ne parliamo).
Ciao! 🧡
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.
Un altro bellissimo numero, Silvia. Grazie per gli spunti su un argomento che sento tanto vicino e che sta alla base di tutto.
Una settimana fa le insegnanti di mio figlio (prima primaria) ci hanno detto che il suo apprendimento della letto-scrittura è più lento del normale e secondo loro ci sarebbe un disturbo autistico. Peccato che io sia neuropsicologa dell’età evolutiva, quindi conosca bene autismo, DSA, ecc. Mio figlio cambierà scuola, ma le mie speranze sulla scuola pubblica sono crollate, purtroppo