#27 Ci vuole un villaggio I E tu, sei un genitore elicottero?
Una riflessione su "noi, genitori di oggi", l'iperprotezione e la visione d'insieme che spesso si perde quando si parla di cura e di genitorialità
Ciao!
Io sono Silvia De Bernardin e questa è “Ci vuole un villaggio”, la newsletter che racconta il cantiere del nuovo villaggio, quello che ancora oggi serve per crescere bambine e bambini. Se questo numero ti è stato inoltrato, puoi iscriverti per riceverla direttamente nella tua casella email ogni due settimane dal bottone qui sotto:
Questo numero è anche in versione podcast: puoi ascoltarlo dalla barra audio in apertura. È un piccolo esperimento, se funziona, lo ripetiamo.
Genitori elicottero
Mentre inizio a scrivere il titolo di questa newsletter, sento già la fatica e, probabilmente, l’avverti anche tu che stai leggendo: mentre tutte e tutti, chi più chi meno, arranchiamo nelle cose di ogni giorno, ecco un’altra definizione-etichetta che - è facile intuirlo - porta con sé un giudizio su “noi, genitori di oggi”. Sì, che fatica e alla fatica ci arriviamo, prima però facciamo un passo indietro e partiamo dalle definizioni, appunto.

Benché scriva di genitorialità da anni - e da altrettanti sia genitore - fino a poco tempo fa non avevo mai sentito l’espressione “genitore elicottero”, benché negli anni vi abbiano dedicato studi, articoli, libri. Poi all’improvviso, eccola spuntare qui e là tra le mie letture. Prima mi è stata segnalata da un amico perché citata in un articolo molto interessante di Lucy sull’importanza dei riti di passaggio nella crescita. Poi, l’ho trovata ben spiegata in La generazione ansiosa, il libro dello psicologo Jonathan Haidt su bambini e tecnologia che ho già citato più volte e che mi è servito per scrivere l’approfondimento sul tema uscito sul numero di febbraio di Vegolosi MAG.
E, allora, chi sono questi genitori elicottero? Sono quei genitori fin troppo presenti nella vita dei figli, che controllano e organizzano ogni aspetto della loro vita intervenendo per rimuovere eventuali ostacoli. L’espressione è stata usata per la prima volta da Foster W. Cline e Jim Fay in un libro di grande successo del 1990 Parenting with love and logic: teaching children responsibility. Haidt la usa per spiegare la sua tesi: i ragazzi della cosiddetta Gen Z sarebbero i primi rappresentanti di una “generazione ansiosa, le cavie di un modello di crescita – scrive – radicalmente nuovo, lontano dalle interazioni del mondo tipiche delle piccole comunità in cui si sono evoluti gli esseri umani”. Due le cause principali dell’ansia che affligge i giovani: da una parte l’esposizione eccessiva e priva di protezioni al mondo virtuale, dall’altra la “disastrosa, per quanto animata da buone intenzioni, tendenza all’iperprotezione e alla limitazione dell’autonomia dei bambini nel mondo reale” da parte dei genitori.
Eccessivamente protetti da genitori insicuri e privati della necessaria dose di gioco libero, non strutturato, sfidante se non addirittura rischioso, e immersi, qui sì senza protezione, nella realtà della rete, i bambini sarebbero diventati incapaci di gestire pericoli, ostacoli e frustrazioni, di immunizzarsi, in qualche modo, verso le difficoltà della vita.
Ho ritrovato la definizione anche nella versione “genitori spazzaneve”. Ne ha parlato recentemente in un’intervista uno dei più noti psicoterapeuti italiani dell’età evolutiva, Alberto Pellai, sempre a proposito dell’iperprotezione esercitata dai genitori di oggi, impegnati a difendere a ogni costo i figli da frustrazioni, delusioni, infelicità (da qui “spazzaneve”, per l’esercizio costante di questa opera di “pulizia” delle strade della vita).
“Noi genitori del terzo millennio vorremo crescere figli sempre felici”, dice Pellai. Ma questo non è possibile perché “la vita accade e porta con sé tutto, il bello e il brutto”. Ecco, allora, che l’iperprotezione rischia solamente di rendere bambini e ragazzi più fragili. Più che proteggere i figli - aggiunge - dovremmo essere per loro una “sponda” capace di rinforzarli.
Sul fatto che oggi esista un problema di iperprotezione genitoriale sembrano concordare tutti gli esperti di età evolutiva e, in fondo, basta guardare con oggettività alla vita di tutti i giorni, nostra e degli altri genitori che conosciamo. Alzi la mano chi non ha inventato storie astruse per giustificare la morte del pesciolino rosso di casa, chi non ha mai pensato di mettere un AirTag nello zaino dei figli in gita, chi non se l’è presa con l’insegnante per un brutto voto, chi ha il coraggio di mandare a scuola i propri figli a piedi, da soli, quando sono alla primaria, e via discorrendo. Ognuno poi ha il proprio livello di protezione e può riconoscersi o meno in questi, che sono i primi esempi che mi sono venuti in mente, ma è inutile nascondersi: lo sappiamo bene che la tendenza è quella.
C’è, però, una cosa che mi colpisce ogni volta che leggo della questione dell’iperprotezione - e torniamo al tema iniziale del fastidio: è la colpevolizzazione implicita della categoria. Ora tu dirai: ne fai parte, è chiaro che ti senta attaccata. Sì, ma non è solo questo. Non è questione di mettersi sulla difensiva ed evitare di farsi un sano esame di coscienza genitoriale. Anzi, forse oggi uno dei problemi principali dei genitori è proprio la costante analisi di sé, alla base di un’ansia da prestazione molto diffusa (ne avevo parlato giusto un anno fa qui).
È, piuttosto, che in molte di quelle letture manca il quadro di contesto: come ci siamo arrivati a essere così iperprotettivi? Perché noi adulti ci sentiamo tanto insicuri e costantemente sottoposti al giudizio nostro e altrui? Che ne è delle condizioni sociali e culturali nelle quali ci troviamo a esercitare la genitorialità oggi e quanto influiscono sui modelli che adottiamo? E, soprattutto, se stiamo sbagliando così tanto con questi ragazzi, perché la comunità nel suo insieme non ci supporta aiutandoci a fare diversamente?
Mi ha fatto molto riflettere una cosa che ho ascoltato alcune settimane fa partecipando a una tavola rotonda su un tema apparentemente molto distante: il lavoro nel mondo del turismo. In questo settore da alcuni anni si fa fatica a trovare personale, soprattutto tra i più giovani: la motivazione che viene spesso additata è che i ragazzi di oggi non sono più disposti a “fare i sacrifici” che quel genere di professioni richiede (che tradotto, nella maggior parte dei casi, significa: lavorare tanto, pagati poco). In quel dibattito si confrontavano aziende e insegnanti delle scuole del turismo: a un certo punto, è venuto fuori che la responsabilità è anche della “difficoltà a trasmettere il senso dell’impegno e della fatica da parte delle famiglie. Una vera emergenza educativa”. Ho sorriso ascoltando queste parole: ora è colpa nostra, di noi “famiglie”, anche se hotel e ristoranti non trovano cuochi e camerieri! Non dico che non ci sia un fondo di verità e capisco bene ciò a cui gli insegnanti si riferiscono, ma in questa ricostruzione mi pare evidente che manchino alcuni pezzi della storia fondamentali: quelli che qui hanno a che fare, per esempio, con le criticità del sistema scolastico, con i rapporti tra la scuola e il mondo del lavoro, con le storture del mondo del lavoro stesso. Insomma, dire che è colpa delle famiglie se i ragazzi non sono più disposti a fare lavori “sacrificanti” mi sembra riduttivo, e anche piuttosto comodo, invece di assumersi una responsabilità che dovrebbe essere collettiva e condivisa.
Il punto è che mi pare di vedere sempre la stessa modalità di interpretazione, che si ripete ogni volta che si parla di genitorialità ed educazione: si va sul micro, sulle responsabilità dei singoli e si perde la visione e la complessità dell’insieme, tanto nell’analisi dei fenomeni quanto nella ricerca di eventuali soluzioni. È l’errore che compiamo continuando a intendere la cura di bambini e ragazzi come qualcosa che riguarda unicamente i loro genitori e non, anche, la comunità nella sua totalità.
È qui che nasce gran parte della fatica. Siamo la generazione che più di ogni altra ci sta mettendo testa e consapevolezza nell’educazione di bambine e bambini, ma qualcosa che non funziona evidentemente c’è. Qualche settimana fa un quotidiano nazionale riportava l’ennesima ricetta su come crescere figli sani e felici citando uno studio americano: più verde, meno schermi, più tempo coi genitori. In effetti, sono ottimi punti di partenza per fare qualcosa. Tutti insieme, però.
Tre segnalazioni
Prima di salutarci, come sempre, qualche segnalazione.
Il tema dell’iperprotezione è saltato fuori anche nella chiacchierata che ho fatto nei giorni scorsi nella diretta IG con la pedagogista Alice Di Leva sull’educazione digitale nella preadolescenza: abbiamo parlato di salute, scuola, sonno, regole, patti digitali, con tanti consigli molto concreti per affrontare un passaggio critico per tutti i genitori: quello in cui bambine e bambini chiedono di avere il loro smartphone personale. La puoi recuperare a questo link.
In questi giorni ho letto un libro che credo rileggerò ancora e ancora: L’anno del pensiero magico, di Joan Didion. Forse lo hai già letto o ne hai sentito parlare perché è un libro famosissimo. Era nella mia lista da tempo e finalmente è arrivato il suo momento. Qui Didion, forse la più nota tra le scrittrici e giornaliste americane del Novecento, racconta del suo “anno del pensiero magico”, appunto, quello che segue la morte improvvisa del marito: è un’esplorazione profonda e universale del lutto, del nostro rapporto con la morte e con il dolore, ma anche con i ricordi, le relazioni, i riti famigliari. Ed è un esempio magistrale di scrittura.
Ho visto No other land, il documentario del collettivo di giornalisti palestinesi e israeliani che racconta i tentativi degli abitanti del villaggio palestinese di Masafer Yatta, in Cisgiordania, di opporsi alla sua distruzione per mano dell’esercito israeliano. È il film che la scorsa settimana ha vinto l’Oscar come miglior documentario. Guardalo, davvero. Il mio cuore ha faticato a reggere dal minuto uno per spezzarsi definitivamente davanti alle immagini in cui i carri armati dell’esercito distruggono la scuola davanti agli occhi dei bambini.
E due appuntamenti
Infine, due appuntamenti. Sabato 15 marzo, alle 16, avrò l’enorme piacere di presentare alla Biblioteca Tilane di Paderno Dugnano il libro Libere di scegliere se e come avere figli, della giornalista Ilaria Maria Dondi (che qui su Substack trovi con la newsletter Rompere le uova, che parla di diritti riproduttivi). Di questo saggio, che esplora in profondità le scelte e non scelte della maternità, avevo già parlato qui lo scorso anno, non appena era uscito. Poterlo fare ora dal vivo, con la sua autrice, mi rende felicissima: sono certa che sarà, questa con Ilaria, una chiacchierata potente. Ti aspetto!
Il prossimo fine settimana, a Milano, si tiene anche la mia fiera preferita: Fa’ la cosa giusta!, la fiera degli stili di vita sostenibili che quest’anno diventa ancora più grande e più ricca, conquistando gli spazi di Rho Fiera Milano. Da venerdì 14 a domenica 16 ci sono tantissimi appuntamenti, pensati anche per le famiglie e per i bambini (qui trovi il programma completo). Dentro la fiera, per tutti e tre i giorni, si tiene anche Sfide, l’evento nell’evento dedicato al mondo della scuola e di tutta la comunità educante, con oltre 100 tra incontri, presentazioni e dibattiti. Il titolo scelto è “Educare al pensiero critico”: si parlerà di valutazione, orientamento, valorizzazione professionale, costruzione di contesti educativi accoglienti. Io farò un salto, se ci sei, ci vediamo lì.
Ah! Dimenticavo una cosa: venerdì mi attende un test professionale difficilissimo: sarò ospite in una scuola dove i bambini di quattro classi di quinta elementare mi intervisteranno sul mio lavoro di giornalista. Non vedo l’ora, anche se un po’ di ansietta ce l’ho! Poi ti racconto come è andata.
Intanto, che sia una buona settimana Noi ci sentiamo tra due.
Se la newsletter ti è piaciuta, puoi mettere un 🧡, condividerla e inoltrarla a chi vuoi.
Come sempre, se vuoi scrivermi, io non vedo l’ora di leggerti. Puoi farlo dal bottone qui sotto:
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo, tutte cose che hanno a che fare l’una con l’altra molto più di quanto sembri. Qui ci troverai anche un po’ di questi temi. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG e Job in Tourism.
Ciao Silvia! Grazie per i preziosi spunti di riflessione. Rimanere in equilibrio tra il troppo e il troppo poco non è affatto impresa facile per noi genitori. Constato anch’io ogni giorno, come genitore è come professionista, il rischio costante dell’eccedere. Come ogni generazione di genitori abbiamo una sfida, la nostra è quella di fare meno. Ed è difficile farne comprendere l’importanza, perché sembra quasi una contraddizione. Invece è un atto d’amore ancora più profondo e impegnativo. 💗
Domattina dovrei uscire con una newsletter dedicata proprio all’educazione digitale del “mio” preadolescente… vorrei aver visto prima la tua diretta Instagram ma poco male, adesso la recupero. Comunque a una generazione di bambini ansiosi corrisponde una generazione di genitori con la sindrome dell’inadeguatezza 😉