#30 Ci vuole un villaggio I Il doposcuola dei sogni e altre storie
Un numero che è un uovo di Pasqua, con storie, link, libri e qualche spunto di riflessione per questi giorni di primavera un po’ sospesi
Ciao!
Io sono Silvia De Bernardin e questa è “Ci vuole un villaggio”, la newsletter che racconta il cantiere del nuovo villaggio, quello che ancora oggi serve per crescere bambine e bambini. Qui parliamo di genitorialità, ma anche di comunità, reti sociali, lavoro, servizi, welfare, territorio, cultura, narrazioni. Se questo numero ti è stato inoltrato, puoi iscriverti per riceverla direttamente nella tua casella email ogni due settimane dal bottone qui sotto:
Come promesso eccoci qui con un numero che, a tema con la giornata, assomiglia a un uovo di Pasqua: ci troverai storie, link e libri, con qualche spunto di riflessione per questi giorni di primavera un po’ sospesi.
Partiamo!
Il doposcuola dei sogni
La prima storia è quella del doposcuola di Sutrio, piccolo paese ai piedi del Monte Zoncolan, in Friuli-Venezia Giulia, che nei giorni scorsi ho raccontato per il giornale online L’AltraMontagna. Puoi leggerla per intero a questo link, ma riassumendo: qui il Comune, la scuola, le associazioni locali, i professionisti e le attività produttive si sono organizzati per offrire a bambini e famiglie un doposcuola gratuito e flessibile, radicato nel territorio, ma capace di guardare oltre. Il modello a cui si ispira è quello, avanzatissimo, della “comunità educante” secondo il quale a farsi carico insieme della crescita e del benessere dei più giovani sono tutti gli attori del territorio.
Nei pomeriggi dopo la scuola i bambini partecipano a laboratori con l’erborista e la ceramista, fanno passeggiate nei boschi con i volontari del CAI e seguono incontri di filosofia della montagna, ma studiano anche l’inglese secondo una metodologia molto avanzata e giocano a pallavolo e calcio, senza distinzioni tra maschi e femmine. Insomma, il doposcuola dei sogni. Infatti, i bambini lo apprezzano moltissimo.

Quello del doposcuola, mi ha raccontato l’assessore Sara Morocutti - una giovane e appassionata amministratrice locale, che di formazione è una filosofa - è un presidio sociale fondamentale per decidere di rimanere o andare a vivere in montagna e, magari, anche mettere su famiglia: “Ci siamo accorti che c’era necessità da parte delle famiglie di un servizio pomeridiano flessibile. Non un tempo pieno, ma un tempo scuola diverso, che aiutasse i genitori nella gestione pomeridiana dei bambini e, insieme, offrisse loro attività di qualità”, mi ha detto. Da Sutrio, la città, Udine, dista 70 km e per i genitori che lavorano fuori dal paese i due rientri pomeridiani garantiti dalla scuola non erano sufficienti né per l’una né per l’altra cosa. È il motivo per il quale le giovani famiglie lasciano spesso i paesi: se non c’è la scuola, non ci sono i servizi, non si può che andare via.
La cosa che più mi ha colpito di questa storia sono i numeri: la scuola primaria di Sutrio conta 35 bambini, di cui 25 sono quelli che partecipano al doposcuola. Per un comune piccolo, che in totale ha 1200 abitanti, lo sforzo organizzativo ed economico per garantire un servizio come questo, in forma gratuita, è notevole. Eppure, anche solo per 25 bambini, è stato messo in piedi e sta funzionando.
È un’esperienza che mi ha convinto di qualcosa di cui, frequentando e scrivendo e leggendo molto, in questo ultimo periodo, di montagna e aree interne, sono sempre più convinta.
Ovvero, che le piccole comunità possano essere un laboratorio fervido per sperimentare modi di abitare e di essere e fare rete capaci di rispondere a molte delle crisi in cui ci troviamo immersi, quella abitativa, quella climatica, quella educativa, quella demografica, per esempio. E in molti casi, lo sono già, come a Sutrio.
Del rischio di idealizzazione e semplificazione che può nascondersi dietro questo pensiero avevo scritto giusto un anno fa in un altro numero della newsletter intitolato “Ci vuole un villaggio… anche nei paesi”. Per le notazioni critiche rimando dunque a quanto scritto lì, credo però che di storie come questa di Sutrio abbiamo oggi un grande bisogno: ci dimostrano che si può fare, che si possono immaginare e realizzare comunità che hanno forme, strutture e geografie nuove, più solidali, più concrete, più a misura umana.
Un tuffo nel passato
Qualche settimana fa mi sono imbattuta in questo articolo di “Internazionale” tratto da “The Atlantic” intitolato “Una rete di genitori su cui puntare” nel quale la giornalista Stephanie H. Murray racconta di come in piena pandemia, sulla spinta della necessità, insieme ad altri genitori ha costruito una rete di aiuto che ancora oggi funziona. È stato, per me, un tuffo nel passato: esattamente cinque anni fa, di questi tempi, mentre mi ritrovavo da sola chiusa in casa per lockdown con una bambina di 3 anni e mezzo, gli altri genitori miei vicini di casa diventavano la mia àncora di salvezza e, nel tempo, amici oggi tra i più cari. Ho sempre sostenuto che, tra i pochi lasciti positivi di quel periodo faticosissimo, per me ci sia stato proprio il legame che quel gruppetto di bambini ha costruito in quei mesi. E, di conseguenza, quello che noi genitori abbiamo creato intorno a loro.
Leggendo Murray ho realizzato come, forse, il seme di tutte le mie riflessioni intorno al “villaggio” sia stato piantato proprio in quel tempo diverso e sospeso in cui i bambini andavano e venivano da una casa all’altra, si facevano i turni al balcone, un occhio al computer e uno a loro, che giocavano di sotto, ci si faceva la spesa a vicenda e, in un inizio di primavera mai così luminoso, si passavano infiniti pomeriggi a chiacchierare in cortile, alla giusta distanza e con tanto di mascherina, eppure vicinissimi. È stato in quei mesi che, di necessità virtù, ho scoperto e sperimentato la forza del villaggio.
Scrive Murray: “Non pensavo che questo patto della disperazione avrebbe superato la pandemia. Ma mi sbagliavo. [… ] Pochi mesi fa, mentre mescolavo un pentolone di pasta al formaggio per sei bambini tra i due e i sette anni che mi scorrazzavano intorno, mi sono resa conto che, quasi per caso, avevo costruito qualcosa di simile al proverbiale ‘villaggio’ di cui i genitori moderni sentono tanto la mancanza. Ho capito in seguito che il successo di questa impostazione così rilassata non è una coincidenza: il nostro villaggio non prospera malgrado le basse aspettative che nutriamo gli uni nei confronti degli altri, ma proprio grazie a esse. E questa consapevolezza mi ha fatto capire che l’approccio ‘intensivo’ di un genitore sempre all’erta, diventato così dominante nel modello familiare statunitense, e anche in quello britannico, è incompatibile con la costruzione del villaggio. […] Un accordo di questo tipo inoltre è più consono al vero obiettivo della costruzione del villaggio: dare vita a una rete di relazioni definita da un senso di comunità. La bellezza di crescere i figli in un villaggio è che a un certo punto badare gli uni ai figli degli altri non equivale più a una serie di favori isolati, ma fa parte della quotidianità”.
Il racconto della giornalista americana sottolinea un punto che credo fondamentale: fare villaggio significa, per forza di cose, dare fiducia, delegare, fare un passo indietro, rinunciare al controllo totale sui figli sapendo che quello che si ottiene in cambio può essere infinitamente superiore:
“Allentare la presa può aiutare a scalfire la paura che ti fa pensare di dover controllare tutto e può dimostrarti che i tuoi figli si adatteranno e saranno felici anche in ambienti diversi. In altre parole, un villaggio può offrire uno dei regali più belli ai genitori: rassicurarli sul fatto che la strada per crescere figli sani ed equilibrati non è così stretta come si pensa”.
Cosa succede dopo
Nel numero scorso della newsletter parlavo di “Adolescence” (grazie, lo avete letto in tantissimi!). È stato sulla spinta di quelle riflessioni che ho capito che era giunto il momento di un romanzo che puntavo da tempo: “Cuore nero”, di Silvia Avallone.
In qualche modo, è un libro che di “Adolescence” è una sorta di seguito: racconta cosa succede dopo, quando i ragazzi e le ragazze che hanno compiuto crimini efferati crescono. Che ne è della loro giovinezza? Cosa accade nelle loro vite di adulti quando hanno finito di scontare la pena? E la pena, si finisce mai di scontarla?
Il romanzo lo finirò in questi giorni, ogni tanto la lettura richiede una pausa perché il dolore dei protagonisti, in fuga da se stessi e dal mondo, è palpabile. Però, te lo consiglio così come l’ascolto di questa intervista a Silvia Avallone nel podcast “Voce ai libri”: non c’è rischio spoiler sulla storia, ma il racconto accorato di chi ha provato a sondare il “cuore nero” dei ragazzi parlandoci e offrendo loro uno sguardo nuovo su stessi, anche a partire dalle parole.
Matrimonio e femminismi
“Una figlia per amica” è la newsletter di
Blasi che racconta le relazioni tra figlie e madri, reali e immaginarie. Nell’ultimo numero, Serena si fa una domanda: “Un matrimonio può dirsi femminista?”. L’ho trovata una lettura molto interessante, che nel mio caso ha toccato molti nervi scoperti e che ti consiglio. Si parla di carico mentale e di cura, di coerenza, della capacità di esercitare uno sguardo femminista non giudicante. Soprattutto, ho trovato preziosissima la domanda che Serena suggerisce di usare come “barometro” delle proprie relazioni: ““Respiri? Come sta il tuo pozzo interiore?”. Ovvero, le tue relazioni, di qualunque natura essere siano, lasciano spazio perché che tu possa riempire la parte di te più intima e personale?
Come suggerisce Serena, “non c’è una risposta universale ma le scintille che si accendono a partire da questi quesiti sono preziose opportunità di consapevolezza”. Che poi, è la cosa più importante.
Ora ti lascio alla tua Pasquetta. Io guardo i monti avvolti tra le nuvole fuori dalla finestra e provo a respirare un po’ in questi giorni. Noi ci sentiamo tra due settimane 🧡
“Ci vuole un villaggio” è la newsletter che prende spunto da ciò di cui parlano i genitori la mattina fuori da scuola per provare ad allargare lo sguardo. Perché ho scelto questo titolo e il senso di questa newsletter, lo trovi spiegato meglio qui, nel primo numero.
Io sono Silvia De Bernardin, giornalista freelance e mamma. Da anni scrivo di genitorialità, ma anche di lavoro, salute, alimentazione, sostenibilità e turismo. Mi trovi anche su Instagram e Linkedin e sulle pagine digitali, cartacee e social di Giovani Genitori, Vegolosi MAG, L’AltraMontagna e Job in Tourism.
Leggi altre storie da questo villaggio:
Grazie Silvia, per aver inserito la puntata di Una figlia per amica in questo bel numero che parla di rete e relazioni. Sei sempre preziosa. 🩷